Presidente di Sos Mediterranée
Cosa succede su una nave dopo un salvataggio in mare, parla il presidente di Sos Méditerranée
«Difficile spiegare a persone che pensano di avercela finalmente fatta che non possono scendere quando vedono terra. Non capiscono perché qui non li volete»
Interviste - di Angela Nocioni
“È stata la Guardia costiera a salvarmi nel 2011”. Abdelfetah Mohamed 13 anni fa era a bordo di un barcone salpato dalla Libia diretto in Sicilia. Da allora ha lavorato come mediatore culturale a bordo e a terra. È il presidente della parte italiana di Sos Méditerranée, organizzazione umanitaria europea con 37mila persone soccorse in mare finora.
“Io mi sento come se fossi rimasto sospeso al confine dell’Italia – dice – come se volessi restare a vivere sospeso in questa frontiera. Non so se voglio fare pace con questa sensazione o dimostrare qualcosa, ma io voglio fare il mio dovere nei confronti di chi arriva. Sono nato in un campo profughi in Sudan, i miei genitori sono eritrei, sono tornato in Eritrea dove ho vissuto per 8 anni, per la dittatura sono scappato in Sudan e da lì in Libia dove sono stato 5 anni, poi è scoppiata la guerra in Libia e sono scappato con la prima barca. Catania è il posto in cui sono stato più a lungo nella mia vita, 11 anni: è casa mia”.
Come andò quel salvataggio, il tuo?
Ero in una delle prime barche di migranti che partivano dalla Libia. Qui c’era già questo dibattito ‘li soccorriamo o non li soccorriamo’, siamo rimasti in acqua per quattro giorni, una donna ha partorito, è nato un bambino. Sono stato tanto sulle navi di salvataggio già dal 2015, quando sono partite le prime io ero lì. Lo vedo quanto si impegnano nei soccorsi quelli della Guardia Costiera, quelli che in mare ci stanno per salvare. Non mi permetto di dire nulla perché mi hanno soccorso loro e perché fanno tanto, più di noi. Parlo di quelli in mare. Ma nelle istituzioni, al Comando, a Roma, è successo qualcosa. Nel 2016 i salvataggi li facevamo insieme, noi e la Guardia costiera, ci chiedevano di portarglieli. Ora c’è una pressione forte, politica. Alle persone della Guardia costiera non gli possono sequestrare i mezzi, non li possono fermare come fanno con noi. Ma se a noi, che non contiamo niente, ci hanno fatto due fermi in pochi mesi, non posso nemmeno immaginare la pressione che faranno su di loro. Questa forza contraria su chi fa i soccorsi si sente, fortissima, la subiscono anche i pescatori. È pericolosa, mette a rischio la vita di tante persone, di tanti bambini.
Ti ricordi cosa hai pensato quando sei salito su quel barcone?
Uno quando parte, parte pensando: o vivo o morto. Fa un patto con l’idea di morire. Quando ce la fa ad arrivare, o quando viene salvato in mare, ricomincia a vivere, cambia tutto. Ricomincia a pensare al futuro, è un momento delicatissimo e drammatico: deve iniziare a sognare, ricordare cosa vuol fare nella vita, non è facile, è un momento di rinascita. Quando sono arrivato qui ho dovuto inventarmi una data di nascita. Era necessario. Tutti me lo chiedevano e io non lo so quando sono nato. Chiedere a una persona quanti anni ha mi sembra ancora quasi volgare.
Cosa dicono le persone appena tirate su dall’acqua? Cosa accade a bordo subito dopo il salvataggio?
La nave appena salgono è una sala parto, c’è tanta di quella confusione, non sai se piangono perché sono contenti o se sono terrorizzati, tutti gridano e si abbracciano, oppure ridono, a volte saltano di gioia e lì è pericolosissimo, devi dire: state fermi e è difficile spiegare di non esultare a un ragazzo appena sopravvissuto.
Cosa vi chiedono?
La domanda più frequente è: come faccio ad andarmene, molti devono raggiungere persone in altri paesi. Un’altra cosa che chiedono è: come faccio per lavorare. E: quanto tempo devo stare fermo? Dopo un giorno di navigazione viene l’ansia, ora dobbiamo sempre affrontare un lungo viaggio per arrivare al porto assegnato dall’Italia che è sempre un porto molto lontano e per arrivarci servono giorni di navigazione. Devo spiegare a persone che pensano di avercela fatta la ragione per cui non possono scendere quando vedono terra. Non capiscono perché qui non li vogliono, non capiscono come mai. È un compito difficile distruggere le aspettative, dirgli: aspetta, qui non funziona che scendi e basta, sei salvo e è finita. No, non è finita.
Non lo sanno già?
No, moltissimi non lo sanno, pensano che ce l’hanno fatta.
Raccontano a voi cosa gli è successo prima di imbarcarsi?
Alcuni, dopo un po’. Noi non facciamo domande sul passato perché non possiamo aprire ferite che poi non abbiamo il tempo di chiudere. Parliamo del futuro. Non sanno nulla dell’asilo, della richiesta d’asilo, moltissimi non sanno niente. Difficile spiegare lì per lì che chi arriva deve solo aspettare per anni un documento che non arriva mai, senza avere la possibilità di un contatto libero con la gente di questo paese, senza scappare. In queste condizioni, con chi si dovrebbero integrare i rifugiati? Fra di loro?