Il paradosso

L’ultima provocazione di Mario Tronti: “Per salvare il mondo serve la Guerra Fredda”

Solo in questo modo si può evitare la guerra guerreggiata. E riaprire la strada alla coesistenza pacifica. Ma per fare questo occorrerebbe una Europa politica in grado di svolgere il suo ruolo. E non c’è

Editoriali - di Redazione Web

29 Dicembre 2023 alle 17:03

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L’ultima provocazione di Mario Tronti: “Per salvare il mondo serve la Guerra Fredda”

Il saggio che pubblichiamo in queste pagine è l’ultimo testo politico scritto da Mario Tronti. E’ stato pubblicato nel volume (edizioni Salomone Belforte) “I nodi dell’Occidente. Sovranismo individuale, crisi delle democrazia, guerra”, curato da Massimo De Angelis.

Tronti ha scritto questo breve saggio prima del 7 ottobre, e quindi non tiene conto della guerra in Israele. Quando parla di guerra si riferisce a quella di Ucraina.

Mario Tronti è nato a Roma nel 1931 ed è morto quest’estate dopo aver compiuto i 92 anni. E’ stato certamente uno dei maggiori filosofi-politici del dopoguerra.

Negli anni ‘50, cioè nel decennio tra i suoi venti e i suoi trent’anni, dopo essersi laureato alla Sapienza sotto la guida di Ugo Spirito (grande filosofo, allievo di Gentile e con un forte passato fascista), con una tesi sul giovane Marx, si mise in contatto con diversi giovani studiosi marxisti e con loro, sotto la direzione di Raniero Panzieri, diede vita a una rivista politica che ebbe un’enorme importanza negli anni 60: “Quaderni Rossi”.

Fu lì che nacque l’operaismo, e i maestri principali dell’operaismo, insieme a Tronti, furono Alberto Asor Rosa e Toni Negri. Nel 1966 Tronti scrisse quella che resta forse la sua opera più importante: “Operai e Capitale”. Che spinse il ‘68 verso l’operaismo.

Successivamente Tronti si spostò su posizioni politiche diverse, sostituendo l’autonomia del sociale e la centralità del conflitto di classe con l’”autonomia del politico”, si riavvicinò al Pci del quale fu anche deputato e poi al Pd del quale fu senatore . In questi anni, spesso è intervenuto sia sul “Riformista”, sia, dopo il suo ritorno in edicola, sull’“Unità”.

 

Seguo i macrotemi indicati da Massimo De Angelis: Sovranismo individuale, crisi della democrazia, guerra. Esistono i valori dell’Occidente? Negarne l’esistenza non credo che serva. Si liquiderebbe il problema, invece che risolverlo.

Il problema è la funzione cui i valori assolvono. Nel concetto di valore è implicita una dimensione etica. Compito della critica è svelarne appunto la portata politica. È il tema dell’ideologia, declinata marxianamente come falsa apparenza. E però questa falsa apparenza assume poi una funzione reale, quando esprime egemonia a giustificazione dell’esercizio di un dominio.

Si è detto e scritto di morte delle ideologie, conseguenza di una presunta “fine della storia”. Le ideologie come espressione di idee-forza che mobilitavano e organizzavano le masse non si sono estinte da sole, sono state volutamente fatte fuori, perché appunto non ci fossero più masse coscienti da mobilitare e organizzare. E perché ne residuasse una sola massa di individui omologati dagli stili di vita, dall’appiattimento delle opinioni e quindi comandati da un pensiero unico.

Ma le ideologie come narrazione distorta, se non rovesciata, della realtà sono tuttora vive e vegete. Anzi sono al massimo del loro sviluppo, nell’era della dittatura della comunicazione, con mezzi tecnologici capaci di arrivare, dappertutto e in ogni momento, fin dentro una recezione passiva da parte dei singoli soggetti.

Il tema dei valori in Occidente è quasi per intero ideologizzato in questo senso, nel senso cioè di una narrazione al servizio di una battaglia per l’egemonia, politica prima che culturale, a senso unico però, che non accetta confronto, non ammette contestazione.

Allora, io cerco di non usare la parola valori. Preferisco la parola princìpi. Più storica, più realistica, più di lotta, da un punto di vista opposto, ma senza maschera. Ognuno con i suoi, in conflitto. Si può veramente parlare di un’eclissi dei valori occidentali? Individualismo liberalismo democrazia vengono declamati oggi come non mai.

Decantati come l’unica ricetta per tutti i mali del mondo. A cui non si dà alternativa. Sarebbe più proprio parlare di crisi dei valori come crisi di civiltà. È il complessivo impianto liberaldemocratico, istituzionale ma anche ideologico, che non funziona più, nel senso che non riesce più a tenere insieme la formazione economico-sociale.

È negli Usa, giustamente, come sistema politico più perfetto, che la cosa si è mostrata con più evidenza, con l’irruzione di Trump e quel che ne è seguito. In Europa l’abbiamo visto con populismo, demagogismo, antipolitica, democrazie illiberali.

Va messa molta storia, contemporanea, nel pensiero di oggi. Perché il male viene da lontano. Va riafferrato alle sue origini, quando, anni Ottanta del Novecento, il capitalismo cambia forma, com’è nella sua natura storica di Proteo che si sviluppa attraverso crisi, si nutre del conflitto, in quel caso reagisce ai trent’anni gloriosi 1945-1975, risistema il suo sistema e ristabilizza il suo potere.

La Trilateral, già negli anni Settanta aveva dettato il nuovo ordine del giorno: c’è troppo disordine nella produzione e nella distribuzione della ricchezza delle nazioni; l’ordine va ristabilito; troppa politica al posto di comando; troppo Stato rispetto al mercato; eccesso di domanda dal basso; lotte fuori controllo; basta con narrazioni ideologiche antagoniste; non solo non c’è ma non ci deve essere più alternativa allo stato di cose presente. Appunto, fine della storia. Ben prima del crollo dell’Urss.

Di lì, una nuova età di Restaurazione viene abbondantemente nutrita con una feroce reazione antinovecentesca. Il nuovo che avanza esige che il passato deve passare, definitivamente. È un’onda travolgente. Quelli che avevano il dovere di trattenerla, chiamandosi ingenuamente progressisti, l’hanno cavalcata. E giustamente essi stessi ne sono stati più che travolti.

Gli anni Novanta sono, in Europa, la gestione socialdemocratica della nuova era del capitalismo finanziarizzato, globalizzato, tecnologizzato e, come stiamo vedendo, sofisticatamente armato.

E, incredibile a dirsi, nemmeno il crack del 2007/2008, nemmeno, prima, l’Iraq, Il Kosovo, l’11 settembre, e, dopo, le conseguenze, l’aumento vertiginoso in tutto l’Occidente delle disuguaglianze, nella ricchezza, nel lavoro, nel potere, nel sapere, nelle opportunità, nelle tutele, nemmeno tutte queste cose insieme hanno portato a ribaltare questa illusione di magnifiche sorti e progressive.

Ma, attenzione, crisi non vuol dire crollo. Sono processi di lunga durata. Di tramonto dell’Occidente si parla da un secolo. E questa parte di mondo è ancora al comando del pianeta, almeno nelle intenzioni. E l’errore di chi ha scatenato questa guerra è che essa ha fornito l’occasione per un rilancio e un consolidamento di questo comando. Dico errore e non crimine. Considero la risoluzione del Parlamento europeo su la Russia stato terrorista un’altra pericolosa provocazione, tra le tante.

Questa guerra certifica come il rapporto di forza sul piano tecnologico-militare è ancora a favore dell’Occidente. I suoi valori non marciano più con le baionette, ma volano con i droni e parlano con gli algoritmi. Non su questo terreno esso va sfidato. Occorre contrapporre un armamentario di idee alternative, capace però di fare presa sull’opinione corrente, disinformata e disorientata.

Credo che bisognerebbe decidere un punto di concentrazione per questa battaglia delle idee. Mi sta bene la formula, efficace, di sovranismo individuale, di questo soggettivismo estremo, di questa antropologia liberale.

Ma il problema oggi non è l’individuo in sé, ma l’individuo massificato, io lo chiamo, portando all’estremo il concetto – come penso che bisogna sempre fare per dissipare l’apparenza ideologica – il borghese-massa: questa omologazione di gusti, di costumi, di abitudini, appunto di informazioni, e quindi di convincimenti. È la mentalità borghese che bisogna andare a colpire.

Badate, questo è un modo di vivere, che si congiunge a un modo di pensare, e che fa blocco storico tra intellettuali e popolo, in senso contrario a quello che si era pensato con quell’espressione.

Ora – qui è il punto – tutto questo è garantito, e organizzato, più che dall’attuale assetto liberale, dall’attuale assetto democratico. Parlo appunto, non della democrazia come valore, ma delle democrazie realizzate contemporanee. Su queste va appuntata la critica: su questi sistemi politici ridotti a rito elettorale, tra l’altro sempre più manipolato da tecniche comunicative e sempre più falsato da leggi elettorali, per un verso o per l’altro, tutte leggi truffa.

Oggi queste democrazie vivono di rendita sulla contrapposizione salvifica alle autocrazie. Ma siamo sicuri che non ci siano elementi autocratici nei sistemi democratici? L’altra contrapposizione è alle democrazie illiberali. Siamo sicuri che in queste democrazie liberali sia garantita la libertà autentica della persona umana?

Autenticità della libertà. Rileggiamo Situazione e libertà nell’esistenza umana del Luporini premarxista, La libertà comunista di Della Volpe, Esistenza e persona di Pareyson, e Guardini e Ratzinger contro una secolarizzazione relativista. Non regaliamo la libertà all’homo democraticus, che non sa che farsene perché è uomo gregge.

L’aspirazione, se volete, utopica, di una libertà della persona umana nel senso kantiano, non solo Unabhängigkeit, indipendenza, ma Autonomie, cioè possibilità e capacità di dare legge a sé stesso, in quanto spirito libero, questa aspirazione rivoluzionaria andrà ricollocata, quando il tempo verrà, in un’idea vecchia/nuova di comunismo.

Vecchia e nuova, perché va dal racconto degli Atti degli Apostoli sulle prime comunità cristiane ai soviet degli operai e dei soldati. Io giocherei il liberalismo classico contro non solo il liberismo, ma contro l’attuale liberaldemocrazia. Il classico liberale Locke teorizzava il diritto di resistenza contro l’abuso di potere.

Un ultimo punto di concentrazione della critica, forse il più ostico, il più difficile da assumere. Ma ormai dobbiamo avere il coraggio intellettuale di parlare fuori del coro. Contro la pratica dell’autoritarismo recupererei il concetto di autorità. Leggere Kojève su questo punto. Libertà, nel senso sopra descritto, è il contrario di autoritarismo, ma non il contrario di autorità.

La crisi delle attuali democrazie è, a mio parere, prima di tutto crisi di autorità. Il potere viene subìto, o contrastato, perché non riconosciuto.
Questo è il populismo, questa è l’antipolitica, questa è la frattura tra establishment e società, del lavoro, ma anche dell’impresa. Qui, la categoria hegeliana di riconoscimento, Anerkennung. Autorità è potere liberamente riconosciuto. Così, legittimato. E quindi anche efficacemente funzionante.

Sono problemi teorici, oggi nel mondo globalizzato da mettere in forma geopolitica. Posso sbagliare, ma vedo venire la maggiore ostilità a questi approcci non dalle pianure sarmatiche, ma dall’Oceano anglosassone. Occidentalismo ed euroasiatismo, potenze di mare e potenze di terra, Leviathan e Behemoth, tornano a confrontarsi in modo inedito. Terra e mare di Schmitt mai è stato attuale come lo è ora.

Non so se l’unipolarismo si combatte con il multipolarismo. Io vedo, quasi inesorabile, venire avanti un nuovo bipolarismo. Certo ormai Usa e Cina sono i due poli di attrazione, nelle rispettive zone di influenza. E tutto si deciderà su questa futura confrontation.

C’è il tema dell’Europa. Quando guardi i balletti di queste riunioni del Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo o quelli dei ministri dell’economia o degli esteri, questi personaggi fantasmatici che si salutano, si abbracciano, si sorridono, senza sapere che non contano un bel nulla nell’attuale rapporto di forza della vicenda mondiale in atto, allora capisci che manca un tassello capace di raddrizzare il destino della storia contemporanea.

Questa guerra non ci sarebbe stata se un’Europa politica fosse esistita. Un’Europa politica poteva, essa, forse, caricarsi il compito di scrivere un nuovo nomos della terra, dopo il Novecento, a partire dal tragico della sua storia e dall’altezza della sua Kultur, una vera e propria nobiltà dello spirito.

Non so se proprio questo avessero in mente i grandi costituenti del secondo dopo guerra. Ma certo ne avevano almeno intuìto un possibile storico avvio.

Poi le leggi di movimento dell’economia hanno presto preso il sopravvento sulle ragioni di fondo della politica. L’Europa occidentale è diventata ed è rimasta terreno di occupazione americana. L’Europa orientale, fin dentro la Germania, un terreno di occupazione sovietica. E la guerra fredda ha solo trattenuto la catastrofe.

Nel bipolarismo globale che si sta configurando, l’assicurazione della pace si può realizzare solo con la gestione politica di una nuova guerra fredda, messa in forma come quella novecentesca, una guerra non guerreggiata, in evoluzione verso una coesistenza pacifica.

Valori o princìpi che siano, si confrontino essi al posto delle armi: diverse, contrapposte concezioni del mondo e della vita, funzionamenti diversi dei sistemi economici, modi istituzionali diversi di sistemi politici.

La guerra fredda equivale a una pace calda. È quello che ci vuole per mantenere vive le differenze, per garantire, come legittimi, punti di vista alternativi, per tenere acceso, civilmente, il conflitto, padre di ogni possibile cambiamento, per risvegliare classi dirigenti, politiche, oggi generalmente in sonno.

Allora, però, tra i due poli ci vorrebbe una forza, una potenza d’interdizione, come sulla linea di confine tra due eserciti belligeranti che hanno smesso di combattere.

Ecco, di nuovo l’Europa politica. Indispensabile premessa: un grande movimento di liberazione dai vincoli atlantici, la fondazione di una propria soggettiva autonomia. Certo, se si guarda al ceto politico dell’attuale Unione europea, questa risulta pura utopia. Ma utopia concreta, al modo di Ernst Bloch: quella che richiede volontà di decisione, capacità di realizzazione, lucidità di determinazione.

29 Dicembre 2023

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