Il Patto e il premierato
L’Albania e lo stop al trattato, una lezione contro il premierato
La Costituzione di Tirana consente a una minoranza di sottoporre alla Consulta il controllo preventivo di legittimità. Con la maggioranza bulgara bramata dalla destra, e senza adeguati contropoteri di Corte e Parlamento, l’Italia rischia di finire confiscata da un potere assoluto
Editoriali - di Salvatore Curreri

C’è un aspetto della vicenda del protocollo Italia-Albania che è rimasto sottotraccia nei vari commenti che si sono susseguiti alla decisione della Corte costituzionale di sospenderne la ratifica e che invece merita di essere evidenziata, anche perché utile ai fini dell’attuale dibattito sulle riforme costituzionali: la possibilità per una minoranza parlamentare di fare ricorso diretto al giudice costituzionale.
La Costituzione albanese del 2022, infatti, prevede che almeno un quinto dei 140 deputati che compongono l’Assemblea possa fare ricorso alla Corte costituzionale se ritiene una legge in contrasto con la Costituzione o con gli accordi internazionali. Nel caso specifico degli accordi internazionali, tale ricorso può essere presentato prima della loro ratifica (art. 131.1.b Cost.).
Non si tratta di un caso isolato nel panorama comparato. Non sono infatti pochi, e nemmeno marginali, i Paesi in cui le minoranze parlamentari che dubitano della legittimità costituzionale di una legge possono fare ricorso alla Corte costituzionale in via preventiva, cioè prima che la legge venga approvata (Francia, Portogallo, Romania, Lituania, Armenia, Cile), oppure successiva, cioè dopo la sua promulgazione (Germania, Austria, Spagna, Portogallo, Polonia, Slovacchia, Russia, Ungheria).
Si tratta di un controllo di costituzionalità astratto perché svolto su una disposizione di legge prima della sua promulgazione o della sua entrata in vigore. Per questo viene di solito criticato. Si obietta, infatti, che la costituzionalità di una legge va sempre valutata sulla base della interpretazione ed applicazione concreta che ne fanno i giudici, i quali potrebbero in tal modo rimediare a taluni difetti, scartando le interpretazioni incostituzionali per adottare piuttosto interpretazioni delle disposizioni conformi a Costituzione.
Inoltre, si obietta ancora, in tal modo si trascinerebbe la Corte nell’agone politico. Insomma, l’introduzione di tale giudizio preventivo di costituzionalità sarebbe una mela avvelenata che la politica offrirebbe alla Corte costituzionale. Provo a superare queste obiezioni. Innanzi tutto il nostro ordinamento già prevede un giudizio astratto di costituzionalità: è quello che il Governo e le Regioni possono presentare alla Corte costituzionale rispettivamente contro le leggi regionali o statali entro sessanta giorni dalla loro approvazione.
In secondo luogo ci sono leggi la cui eventuale incostituzionalità non può essere rimediata dall’interpretazione del giudice. Sotto questo profilo, dunque, il passaggio dinanzi al giudice, chiamato a sollevare la questione d’incostituzionalità, si risolve in oggettivo fattore di ritardo nella rimozione dal nostro ordinamento di disposizioni poi riconosciute incostituzionali.
E il fattore tempo nel giudizio di costituzionalità non può essere affatto considerato secondario, perché una giustizia (anche costituzionale) ritardata è una giustizia negata (Bentham). Basti pensare a talune sentenze della Corte sui diritti fondamentali – dal suicidio assistito all’ergastolo ostativo – per comprendere come il quando la disposizione viene dichiarata incostituzionale e rimossa dal nostro ordinamento non è affatto indifferente ai fini della effettiva tutela del diritto violato.
E non si tratta di trascinare la Corte costituzionale nell’agone politico, facendola diventare soggetto politico tra gli altri (che forse i giudici costituzionali dei Paesi sopra citati lo sono diventati?) ma, al contrario, di permettere ad essa d’intervenire più tempestivamente mantenendo il carattere giurisdizionale del suo giudizio.
Sotto questo profilo, infatti, il controllo di costituzionalità della Corte – preventivo o successivo, astratto o concreto che sia – esclude sempre “ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento” (art. 28 l. 87/1953).
La decisione della Corte costituzionale albanese casca dunque a fagiolo mentre si discute la riforma costituzionale che mira ad introdurre l’elezione diretta del Presidente del Consiglio. Se è vero, infatti, che in democrazia ogni sistema di governo è fatto di pesi e contrappesi che devono mantenersi in equilibrio tra loro, senza sbilanciamenti, non si può non notare come al rafforzamento della figura (in entrata) del Presidente del Consiglio non si accompagna quello dei cosiddetti. contro-poteri.
Non c’è nulla nei progetti di legge in discussione che riguardi la marginalità del Parlamento, già ora succube del potere normativo del Governo, il cui ruolo (e quello dei partiti in esso presenti) andrebbe invece rafforzato sia riconducendo la patologia della decretazione d’urgenza alla fisiologia delle procedure a data certa, sia introducendo quantomeno un riferimento allo statuto dell’opposizione parlamentare.
Questo perché, contrariamente a quel che comunemente si crede, la vera divisione tra i poteri, oggi, non è tra esecutivo e legislativo, ma tra Governo e maggioranza parlamentare da un lato, e opposizione dall’altro. Così come non c’è nulla circa possibili altri misure che potrebbero rafforzare i poteri delle minoranze, quali ad esempio, oltre il citato ricorso diretto alla Corte costituzionale:
a) il rafforzamento degli attuali quorum di garanzia per l’elezione del Presidente della Repubblica, dei cinque giudici costituzionale e di un terzo dei componenti del Consiglio superiore della magistratura (specie quest’ultimo perché, a differenza dei primi due, parametrato ai votanti e non ai componenti), dato che l’introduzione del premio elettorale del 55% consentirebbe alla maggioranza parlamentare del Presidente del Consiglio eletto di raggiungerli più facilmente;
b) l’esame obbligatorio delle proposte di legge d’iniziativa popolare;
c) la riduzione del quorum per la validità dei referendum abrogativi;
d) l’introduzione di referendum propositivi e d’indirizzo;
Dalla piccola Albania (come dimensioni geografiche, s’intende) ci giunge, pertanto, una lezione importante circa la tutela effettiva dei diritti fondamentali attraverso il rafforzamento dei poteri delle minoranze parlamentari. Magari al prossimo incontro la nostra Presidente del Consiglio potrebbe chiedere lumi al Premier albanese Rama. Perché le Costituzioni si scrivono per i posteri. E la ruota gira…