La guerra e gli Stati Uniti

Intervista a Lucio Caracciolo: “L’Ucraina è un paese fallito, Biden un presidente sconfitto”

«Kiev ha perso quasi un terzo della sua popolazione, milioni di profughi non torneranno: al di là della guerra, ha perso la pace». Il voto americano? «Non mi stupirei se l’attuale inquilino della Casa Bianca lasciasse il campo ad altri: contro Trump non ha chance»

Interviste - di Umberto De Giovannangeli - 12 Dicembre 2023

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Il giornalista Lucio Caracciolo
Il giornalista Lucio Caracciolo

La guerra di Gaza, due mesi dopo, il disordine globale armato. L’Unità ne discute con Lucio Caracciolo, direttore di Limes, la più “antica” (il 6 dicembre ha celebrato il trentennale dall’uscita del primo numero) e autorevole rivista italiana di geopolitica. Da alcuni giorni è nelle edicole e librerie l’ultimo numero, dal tema quanto mai attuale: “Le intelligenze dell’intelligence”.

Dentro cui c’è anche il clamoroso fallimento dell’intelligence israeliana: L’ “imminenza dell’attacco perpetrato da Hamas il 7 ottobre scorso – è uno degli incipit del volume – attesta la perdurante, urgente necessità di integrare i sistemi di raccolta e scrematura automatizzata dei dati con l’analisi e la capacità di discernimento umane”.

La guerra di Gaza continua. L’Onu ha definito la situazione nella Striscia “l’inferno in Terra”. Qual è il segno del conflitto esploso con l’attacco del 7 ottobre di Hamas?
Israele ha accettato la sfida di Hamas, cioè quella di combattere la cosiddetta “guerra decisiva”, che è un po’ lo slogan delle Forze armate israeliane negli ultimi anni. Guerra o vittoria decisiva vuol dire mettere il nemico in condizione di non nuocere. Proposito giusto e legittimo ma credo impossibile.

Perché, professor Caracciolo?
Perché Hamas può essere militarmente ferita o annientata a Gaza, ma essendo una struttura politica con una infrastruttura militare, presente peraltro anche in Cisgiordania e altrove, non può essere totalmente annullata con una operazione su Gaza. Direi anzi che in una prospettiva di medio periodo, avendo accettato la logica della guerra al terrorismo da cui inutilmente gli americani hanno cercato di distoglierla, Israele rischia di produrre non solo odio ma terrorismo per qualche generazione.

C’è chi sostiene che quella che si sta combattendo a Gaza, più che la guerra d’Israele sia la guerra di Benjamin Netanyahu.
No, è falso. Oggi come ieri e forse ancora per un po’, esiste un fortissimo consenso in Israele per la reazione alla strage del 7 ottobre. Certo, il fattore emotivo è determinante e le emozioni non durano a lungo, ma in questo momento non credo che si possa negare la realtà di questo consenso. Il fatto è che Israele non ha una strategia, né sugli obiettivi reali della guerra né, soprattutto, sul dopo. Questa è la guerra che Hamas voleva con l’attacco del 7 ottobre, cioè attirare di nuovo gli israeliani dentro Gaza da cui erano voluti andarsene per sempre nel 2005, in combattimenti sanguinosi casa per casa, tunnel per tunnel, con perdite di civili molto forti e con un guadagno pubblicitario per Hamas non solo fra i palestinesi. Gerusalemme è senza strategia. Nella sintesi dell’ex deputato centrista Ofer Shelah: “Oggi Israele non definisce – e i comandanti militari non propongono – nessuno scopo bellico altro dall’ottenere la quiete. Ciò lascia interamente in mano nemica la capacità di raggiungere questo obiettivo, dato che sarà lui a decidere quando vi sarà o non vi sarà quiete”.

Allargando l’orizzonte, nel numero di Limes “Guerra Grande in Terrasanta”, lei nel saggio introduttivo scrive tra l’altro: “La guerra totale, se sarà, deriverà dall’implosione dei Grandi. Vittime di se stessi, non di maligni complotti altrui né di aggressione nemica. Incapaci di gestire un mondo troppo largo da comprimere in una sola equazione”.
Con il termine “Guerra grande” mi riferisco alla competizione, in parte calda e in parte fredda, tra Stati Uniti, Cina e Russia. Tutti e tre questi paesi vivono una fase molto critica, ma quello che più conta, gli Stati Uniti sono messi male come mai da duecento anni. L’identità stessa del paese è in discussione e le famiglie politiche e sociali americane non si considerano più parti di una medesima nazione ma nazioni in competizione. L’America resta senz’altro il numero uno come fattori di potenza su scala mondiale, ma non ha più la voglia né la capacità di esercitare questo ruolo fino in fondo. È stretta fra due follie. La tentazione di scaricare la sua crisi sul pericolo creduto mortale, Cina, e sul suo non brillante secondo, Russia, scatenando il proprio formidabile apparato militare. E l’impossibilità di farlo senza rischiare la rivoluzione in casa propria.

Altro fronte caldo resta quello dell’Ucraina. Come ci si sente ad aver avuto ragione, rispetto alle analisi di un pensiero mainstream che dava Zelensky col vento in poppa, un’agiografia a cui Limes, e lei in prima persona, non si è mai prestato?
Non so se avessi ragione o torto. A Limes siamo più interessati ad ascoltare e confrontare le ragioni degli altri, con cui ciascuno può comporre una idea propria. Credo sia importante, perché mi pare che in questa contingenza si tenda ad ascoltare solo la propria campana. In geopolitica è vietato. Al di là dell’esito bellico, l’Ucraina ha perso, purtroppo, la pace. Ha poco rilievo se il confine fra Ucraina e Russia passerà a due chilometri quadrati più ad est o ad ovest. Ha decisivo rilievo il fatto che l’Ucraina ha perso quasi un terzo della popolazione, che questi milioni di profughi difficilmente rientreranno in patria e quelli che rientreranno la troveranno largamente distrutta. Il fatto che l’Ucraina sia oggi uno Stato fallito è una realtà con cui non solo gli ucraini ma noi europei, e anche i russi, dovranno fare i conti per qualche generazione.

Lei ha chiamato in causa l’Europa e in essa l’Italia. Sempre nel suo saggio che citavo in precedenza, Lei parla di “ultima chiamata per l’Italia”.
Sì, perché la crisi prodotta dalla “Guerra grande” significa per noi perdere alcune certezze. Primo, la certezza della protezione americana. Secondo, il vincolo esterno con la Germania, vestita d’Europa. Terzo, l’interdipendenza energetica con la Russia. Non vedo nessun sostituto all’altezza dei paesi che ho citato in tre settori chiave della nostra vita associata.

Per tornare allo scenario israelo-palestinese, su Limes lei afferma: “L’ipotesi dello Stato unico guadagna adepti anche fra esponenti dell’establishment strategico americano”.
Lo Stato unico non è una ipotesi, è una realtà. È una realtà, perché tra fiume e mare, tra Giordano e Mediterraneo, esiste un solo Stato, Israele, che controlla, o direttamente o indirettamente, quello spazio. La questione è quale tipo di Stato unico potrà stabilirsi in questo territorio. Ovvero, quando e come Israele deciderà di definire la sua frontiera orientale, e come deciderà di trattare quegli arabi che volessero e potessero restarvi. Questo è il dibattito. È totalmente esclusa l’ipotesi di uno Stato palestinese, a meno che Israele non si suicidi o sia sconfitta in battaglia.

Un precedente numero di Limes ha come titolo Israele contro Israele. Chi sta vincendo?
Questo volume risale al marzo scorso e si concentrava sulla tribalizzazione della società israeliana e sullo scontro tra Netanyahu e le opposizioni attorno alla sua riforma della Corte suprema. Credo che una volta risolta la partita di Gaza, sempre che la guerra non si allarghi, queste fratture torneranno a manifestarsi e a rendere complicato il futuro dello Stato ebraico. Questa, forse, sarà una ragione per Israele di continuare la guerra su un altro fronte, militarmente oggi minore, ovvero quello cisgiordano. Perché la vera partita per Israele, come accennavo prima, riguarda proprio la determinazione della sua frontiera orientale, non Gaza. Finché può, lo Stato ebraico negozia con sé stesso. Nel gioco a somma zero fra terra e identità la partita è tutta interna alle élite e all’opinione pubblica israeliane, espressa con quella libertà e asprezza di argomenti che ne distingue lo spazio mediatico. Qui la geopolitica prevale sulla politica, perché ne è premessa logica e fattuale. Senza il proprio Stato, di che disputerebbero gli israeliani? Primum vivere. Valga la seguente parabola.
D’altro canto, la questione palestinese esiste quale derivata della questione israeliana. Resta il diritto dei palestinesi tutti a decidere del proprio futuro, che si scontra con il fatto, ormai assodato, che i palestinesi non sono soggetto geopolitico, ma campo oppresso e diviso. Ma se la Palestina non esiste né è mai esistita come Stato la responsabilità non può essere solo attribuita ai colonizzatori, siano britannici, ottomani o sionista. Un pensiero autocritico su questa realtà stenta a diffondersi in ambito palestinese.

Cosa resta della “soluzione a due Stati”?
Il mantra “due popoli due Stati” è rifugio di peccatori. O di cinici. Uno sguardo ai coriandoli di Cisgiordania, dove dovrebbe sorgere il nucleo centrale della Palestina, esclude l’ipotesi. O qualcuno immagina che Israele sgomberi a forza i propri coloni, scatenando la guerra civile?

A proposito di immagini che hanno un forte valore politico. Come leggere la recente focosa, ultra amichevole, stretta di mano tra Vladimir Putin e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman?
Ci deve essere una passione tra quei due, perché ricordo, un anno fa, che si dettero pubblicamente il cinque. Non conoscendo i loro rapporti privati, sotto il profilo delle politiche pubbliche mi pare vi siano delle convergenze interessanti e nuove.

Quali?
L’Arabia Saudita ha capito di non potersi fidare più dell’ombrello securitario americano da quando Washington ha rifiutato di reagire ad attacchi missilistici provenienti da attori iraniani, su strutture petrolifere saudite. Da quel momento l’Arabia Saudita, come molti altri in condizioni analoghe, ha deciso di cercare intese, naturalmente provvisorie e limitate anche con chi fino a ieri era considerato il diavolo.

Il 2024 sarà un anno elettorale. Dalle elezioni europee a quelle, ben più importanti, presidenziali negli Usa. C’è il rischio che alla Casa Bianca si reinsedi Donald Trump?
Le elezioni europee restano più che altro un sondaggio sulle intenzioni di voto nelle elezioni che contano, cioè quelle nazionali. Per quanto riguarda il voto americano di novembre 2024, non sarei stupito se Biden non entrasse nella partita e lasciasse il campo a qualche candidato con maggiori possibilità di successo. Oggi come oggi, credo che Trump avrebbe il 90% delle possibilità di prevalere in caso di duello con Biden, e nessun partito, compreso quello Democratico americano che pure ha dimostrato negli ultimi anni una particolare vocazione suicida, intenda partecipare ad una competizione sapendo di averla persa in partenza.

Ma esiste un qualche candidato “appetibile” per l’elettorato statunitense in campo Democratico?
Personalmente non ne vedo. Si parla, qualche volta, del governatore della California, Gavin Newsom, ma in questo clima un californiano alla Casa Bianca significherebbe la quasi certezza di un altro assalto, stavolta non al Campidoglio ma alla Casa Bianca,

12 Dicembre 2023

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