La storia non è finita...
Musk o Rousseau: l’ultimo stadio della civiltà occidentale tra rischi del liberalismo e fragilità della democrazia
I rischi del liberalismo, la fragilità della democrazia, l’illusione della Pax americana. Forse siamo a un bivio della storia. Il volume “I nodi dell’Occidente”, scritto a più mani, si occupa di questo con una pluralità di voci e di pensieri
Cultura - di Massimo De Angelis
Il 22 febbraio 2022 è suonato il colpo di cannone destinato a cambiare il corso geopolitico del mondo. Insieme ad alcuni amici abbiamo deciso di vederci per discuterne.
Un confronto dal quale è nato il libro I nodi dell’Occidente (Belforte 2023, euro 20), che sarà presentato lunedì 11 presso la Treccani, piazza dell’Enciclopedia 4 in Roma alle ore 17.00. Ne parleranno Paolo Franchi, Alessandra Sardoni e Marco Tarquinio, in dialogo con alcuni degli autori.
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È un libro realizzato da persone con percorsi anche assai diversi tra loro animate tutte, però, dalla volontà di cogliere e stare in quella giuntura tra presente e futuro e dall’implicita domanda di una nuova prospettiva politica.
A quasi due anni di distanza dal drammatico intervento russo in Ucraina, è dato vedere come, da quella rottura, si siano sprigionate, anche in modo confuso e contraddittorio e in concomitanza con l’emergenza climatica e quindi energetica, forze grandi e profonde volte a reclamare un nuovo ordine mondiale.
Si pensi solo al consolidarsi e allargarsi del Brics e al nuovo protagonismo della Cina e del mondo arabo. Si prefigura un nuovo ordine mondiale, inevitabilmente multipolare, ulteriore non solo al bipolarismo che resse il mondo sino al 1991 ma anche a quell’unipolarismo politico e culturale americano, inaugurato dall’ epoca dorata e un po’ superficiale del clintonismo.
Il libro parte di qui. E cerca di approfondire sul piano delle idee. Muovendo da Il liberalismo e i suoi oppositori di Francis Fukuyama, libro uscito, non casualmente, nel giugno del 2022 e fatale controcanto del suo La fine della storia e l’ultimo uomo scritto nel 1992, esattamente trent’anni prima.
Si coglie, nella ritrattazione di un lucido neoconservatore americano, la presa d’atto della fine di un’illusione. Quella di una fine della storia nella quale si leggeva il sogno di una pax augustea sotto l’égida statunitense, nella quale si sarebbe affermata una nuova e irreversibile civiltà progressista imperniata sull’individualismo liberale, sul liberismo in economia, sul regno di scienza e tecnologia al posto di ogni differenza culturale considerata infine come residuo del passato, sulla democrazia come sinonimo di pace.
Il libro sottopone innanzitutto a critica e indaga da diversi punti di vista il senso di tali illusioni. La mossa iniziale non può che riguardare la sostanza ideale stessa delle nostre società e dell’ipotesi ad esse sottesa: il liberalismo. Si potrebbe parlare del valore permanente del liberalismo e dei suoi limiti.
Esso, con l’illuminismo e insieme però alle radici ebraico-cristiane, ha costituito il prezioso “poligono” della nostra civiltà e del suo vitale e anche conflittuale pluralismo. Ma rifiutate e recise le radici, la nostra civiltà ha iniziato a immiserirsi, uniformarsi e ripiegarsi su se stessa. Emerge allora il limite egoistico, materialistico e il rischio superomistico del liberalismo stesso (come del resto persino il liberale Fukuyama avvertiva già nel suo primo libro).
Si smarrisce soprattutto il senso della persona nella sua differenza dall’individuo. Molti anni fa il mio amico Lucio Colletti, mentre ragionavamo su Maritain, mi diceva un po’ ironicamente: “la persona è l’individuo imbottito”. Ma non è così. Ovvero così si procede verso una concezione e una vita isolata, ridotta dell’uomo.
Nella quale prevale la competizione, il desiderio, l’intelligenza anche artificiale sulla relazione, il cuore, la solidarietà. Ma avviene, col tempo, qualcosa di ancor più abissale. Senza la persona centro di relazioni, a cominciare dalla famiglia, è anche il rapporto con la comunità, col popolo che si sfilaccia e disperde; e questo porta a una perdita della propria cultura, memoria e quindi dell’identità più profonda.
Tutti diventano più globali e digitali ma con sempre minore identità. E qui veniamo al punto. Come si rileva in molti interventi tale svuotamento dell’individuo impatta sulla stessa sostanza democratica. Noi rivendichiamo la superiorità dei nostri sistemi democratici occidentali e questo appare, almeno a oggi, indiscutibile ma tali sistemi sono sempre più fragili e delegittimati, perché il loro retroterra culturale è sempre più impoverito.
Le masse popolari che innervavano sino agli anni Settanta del secolo scorso le nostre democrazie sono sostituite da individui anonimi sempre meno decifrabili mentre un certo turbocapitalismo ha sistematicamente smantellato, in nome dell’ideologia progressista, identità, memorie, specificità, culture promuovendo un credo e una prassi tecnologica che fa sorgere dilemmi morali prima che politici sempre più evidenti e persino, come nelle biotecnologie, lancinanti e inquietanti.
Ma dove si afferra il grumo di questa deriva? Forse, ancora una volta, dal tema della cultura. Indissociabile da quello della comunità. Come diceva Rousseau l’appartenere a una comunità di valori, di cultura, rafforza l’individuo. Lo rende persona e richiede che esso sia persona aperta e che si gioca nella relazione e non che si chiude nella ricerca, al più, di un mutuo interesse.
Ma le nostre società sono sempre più ricche supermarket di merci culturali e sempre più povere di una cultura che informi comportamenti collettivi e sia riconosciuta dalle comunità. Ne segue disgregazione e persino violenza contro cui non bastano certo “nuove leggi”. Così come scienza e tecnica non possono potenziare quei sé che noi siamo.
E qui si torna all’inizio del ragionamento e si pone la questione cruciale. L’Occidente si trova dinnanzi un altro da sé che pensava di aver ricondotto alle sue regole. A quel mondo altro da sé ha consegnato tecnologie, anzi ha immesso quell’altro da sé nel mondo della tecnica che è diventato globale.
In tal senso, ma solo in tal senso, l’Occidente è divenuto globale. Ma vi sono poi le culture e qui l’Occidente si scopre impoverito e svuotato. Esso si avvede di aver subìto uno spaventoso processo di deculturalizzazione. Il cancel culture, a braccetto col politically correct, è solo l’ultimo e più aggressivo gradino di un più generale processo di deculturalizzazione promosso dall’ideologia progressista, da un estremismo liberale in economia da una tecnologia senza vere regole e controlli democratici.
Si pone allora, è questo un altro dei leitmotiv del libro, il tema dell’identità europea. La questione, oramai, può essere posta solo come un interrogativo: quale identità dopo il rifiuto delle radici ebraico-cristiane? Quelle radici che sono (erano?) complementari a un liberalismo che non si assolutizzi, che non si avviti in un sovranismo individuale come si dice nel libro.
Forse la civiltà europea, e quindi quella occidentale, sta raggiungendo il suo ultimo stadio che si potrebbe emblematicamente raffigurare con un Elon Musk, proprio perciò grande personaggio, suprema espressione di quell’individualismo assoluto che sogna di navigare da solo nell’universo quando milioni di persone muoiono di fame.
Forse quando un gran numero di individui giunge all’idea che ciò che importa è soltanto la realizzazione del sé individuale senza badare alle legittime richieste di un collettivo, sia esso la nazione o l’intera umanità, allora forse la civiltà di cui quegli individui sono espressione raggiunge l’ultimo suo stadio.
La critica antioccidentale non ha nulla di rassicurante né indica vie chiare per il futuro del genere umano tranne che essa afferma quanto l’Occidente rischia di trascurare nei fatti: appunto la relazionalità e l’interdipendenza degli individui e l’unità del genere umano.
Il confronto oramai è tra culture, le culture sono collettive e l’Occidente, nel momento di un delicato e per certi versi decisivo confronto, rischia di voler imporre un proprio modello culturale che ha però i piedi di argilla.
Se l’Occidente andrà avanti lungo questa via di autosvuotamento rischia di non avere futuro. Anche la demografia, primo attestato di una comunità vitale, ce lo dice con chiarezza.
In quel caso, se la palla dell’egemonia passasse all’altro fronte, starebbe a loro decidere se restare fedeli ai loro collettivismi “primitivi” e autoritari ovvero decidere quanto della fioritura individualistica o, perché no? personalistica del nostro Occidente essi sono in grado di assumere, sia pure in forma modificata senza perdersi come noi. Ma il libro su tali dilemmi, come è chiaro, non si può ancora scrivere.