Serve la piazza
La postdemocrazia e il rischio di Weimar con Milei, Trump e Salvini
L’Italia è stato il primo rilevante sistema politico europeo a cedere dinanzi all’onda illiberale e a tributare un consenso assai elevato a formazioni così estremiste che turbano anche la sensibilità più moderata del centrodestra post-berlusconiano.
Editoriali - di Michele Prospero
A Firenze si è riunita una parte soltanto della destra radicale che prepara l’affondo contro le stanche democrazie europee. L’altra destra, non meno illiberale, è rimasta rintanata a Palazzo Chigi, dopo l’ennesimo viaggio oltrefrontiera, stavolta in Serbia, per esibire un po’ di inglese e soprattutto altri abiti nuovi.
Guai a pensare che abbia solide fondamenta la storiella che in tanti raccontano nei talk, e cioè che esiste il volto tranquillo di una destra meloniana, non più nostalgica bensì dotata di un responsabile senso delle istituzioni repubblicane, in cui confidare nei casi estremi per arginare il truce padano e la sua furia distruttiva.
Il linguaggio triste che risuonava agli Uffizi purtroppo era il medesimo che Meloni e i suoi luogotenenti brandivano in tutte le piazze d’Italia sino ad un attimo prima della conquista del governo (“Soros usuraio”, “liberare l’Italia dall’oppressione dell’Ue ostaggio dei burocrati e dei tecnocrati”), e che spesso si sono lasciati sfuggire anche dopo l’ingresso nelle stanze dei bottoni (“pizzo di Stato”, “sostituzione etnica”).
L’alternativa alle camicie verdi, che il Capitano ricolloca sul terreno euroscettico nel recupero delle simbologie inquietanti del radicalismo nazional-populista, non può certo venire dai nipotini delle camicie nere, che su ogni tema scottante, attorno al quale non possono più discorrere liberamente come si permettevano di fare prima del settembre fatale, assumono l’imperativo di “aspettare tacendo”.
I post-fascisti democratici di Meloni, dopo gli schiaffi subiti dagli alleati in Spagna e in Polonia, attendono infatti che il vento per i “patrioti” torni a spirare forte dagli Stati Uniti. La sovranità popolare, che sembra stia per riportare in sella un leader dai capelli arancioni che ha cercato di sovvertire con la violenza di piazza e svariati atti illegali l’ordine costituzionale, fungerebbe da cesura storica per decretare che è iniziato ufficialmente il tempo della post-democrazia.
Tra un presidente che a Buenos Aires si fa largo con la motosega, promettendo di attivarla contro “la casta”, e un comandante in capo che nella culla del costituzionalismo vede condonato il suo tentato golpe grazie all’intervento della mano liberatrice della unzione popolare, gli impulsi originari dei dignitari della fiamma tricolore non tarderanno a ridestarsi.
Quella di Fratelli d’Italia è al momento una destra radicale dormiente, pronta a seguire gli ordini patriottici di Giorgia madre e cristiana quando – dopo le elezioni nel 2024 – i rapporti di forza in Europa e nel mondo saranno cambiati. Con il 35% raccolto dalle due destre radicali nel voto del 2022, l’Italia è stato il primo rilevante sistema politico europeo a cedere dinanzi all’onda illiberale e a tributare un consenso assai elevato a formazioni così estremiste che turbano anche la sensibilità più moderata del centrodestra post-berlusconiano.
A Firenze le parole d’ordine dei leader sovranisti lasciavano percepire il ritorno in gran spolvero di un’antica reminiscenza europea: il mito politico. Sempre le cadute delle democrazie sono precedute dalla riapertura della officina della mitologia, e comunque dall’accantonamento della logica in favore del “paradossale”, dell’irrazionale ma con “juicio” che adesso persino “Il Foglio” trova “sexy”.
Il “mito” della destra è l’elezione diretta del premier, con il corpo del capo che finalmente decide senza gli intralci del Parlamento e assorbe le paure e le aspettative della massa. Quest’ultima viene chiamata alle armi attraverso la riscoperta della solita iconografia del rancore e l’esibizione della radice etnico-religiosa della “Nazione” umiliata perché invasa dalle migrazioni di altre fedi.
Ernst Cassirer (Simbolo, mito e cultura, Laterza) rilevava che, nelle giunture critiche della politica europea del Novecento, si riaffacciava una “intronizzazione esplicita del mito” la quale trafisse il vecchio ceto politico, incapace di comprendere i processi disgregativi con il “suo modo di pensare sobrio, empirico, tutto fatti”.
Quando ricompare il lungo scontro tra il mythos e il logos, non basta confidare nella competenza “neutralizzante” delle élite, nella misurata lingua della fattualità. Spiegava Cassirer: “Il XX secolo è un secolo tecnico, ed applica metodi tecnici a tutti i campi di attività, così teoretici come pratici. L’invenzione e l’uso sapiente di uno strumento tecnico – ossia la tecnica dei miti politici – decise la vittoria del movimento nazionalsocialista in Germania. Gli avversari del nazionalsocialismo avevano perduto ancor prima che la battaglia avesse inizio. E ciò perché nella lotta politica è sempre di vitale importanza conoscere l’avversario, penetrare i suoi modi di pensiero e di azione. I capi di Weimar erano impari a questo compito. Essi non compresero minimamente il carattere e la forza della nuova arma impiegata contro di loro”.
Non c’è nulla di primitivo nella “bestia” di Salvini che fabbrica le nuove narrazioni del risentimento e le rende senso comune grazie anche alla irresistibile regressione infantile della televisione e dei social. Non sono comunicatori istintivi quelli attivi nel laboratorio politico e mediatico delle destre, sono piuttosto professionisti della forma-mito.
Essi riescono, con indubbia capacità di calcolo e di previsione, a vendere al pubblico le semplificazioni più emozionali e miracolose le quali, complice l’immaginazione mitica, inventano una risposta facile ad una minaccia spacciata come vicina e imminente. E’ giusto che monti ovunque una sana preoccupazione dopo gli strepiti fiorentini, i proclami ancor più allarmanti di Trump, il rumore sordo del novello “non aprite quella porta” che si aggira per la Casa Rosada.
Tuttavia, la penetrazione delle suggestioni magiche e pre-logiche del mito può essere contrastata, come dimostrano la Spagna e la Polonia. Lo stesso Macron ha per due volte sbarrato la strada a Le Pen, che però è ancora sulla scena e conta di dare l’assalto decisivo al fronte repubblicano.
Non basta la perizia delle élite, con la loro difesa della razionalità infranta, così come insufficiente è l’economicismo, con il gergo freddo dei numeri e l’insistenza solo sui dati e sulla tenuta dei conti, a interrompere la fucina che sforna idoli a raffica (drammatizzazioni contro la finanza, le banche, le burocrazie europee, l’omosessualità, gli islamici, la transizione energetica vista come “longa manus” del regime cinese).
In generale, non è con i governi dei tecnici che si estirpa stabilmente la forza incantatoria della “tecnica” del mito politico. Illusoria è anche la via nordeuropea di competere con la destra radicale adoperando il suo stesso dialetto sulle questioni più divisive (guerra, immigrazione).
Sono di cruciale importanza il risveglio del movimento sindacale avvenuto su piattaforme non corporative, l’avvio di una mobilitazione civica contro lo stravolgimento della Costituzione, le manifestazioni che denunciano le reviviscenze del patriarcato sconfitto, l’assunzione del diritto alla salute come uno degli assi programmatici della lotta alle differenze di classe.
Per saldare questi cenni di resistenza serve però la politica, l’organizzazione. Qui è urgente uscire dal torpore e dal chiacchiericcio superficiale che appare afono al cospetto delle urla che provengono dalle due destre al potere.