L'ex governatore della Puglia
Il ritorno di Nichi Vendola: “L’orrore di Hamas non giustifica l’apocalisse di Gaza”
«Oggi si ha perfino paura di chiedere un cessate il fuoco davanti alla carneficina di bambini a Gaza. I macellai di Hamas hanno scritto una pagina tra le più vergognose nella storia dell’orrore, ma nulla giustifica la reazione di Israele. Perché dobbiamo tacere di fronte al martirio della Palestina?»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Un ritorno all’impegno politico alla grande. Su un tema cruciale: la pace. E una sinistra che ha smarrito la giusta via. “La sinistra in direzione contraria alla pace è un ossimoro”. Parola di Nichi Vendola. Che a una sinistra balbettante, senza visione strategica, l’ex governatore della Puglia indica un solido punto di riferimento: Papa Francesco. “Papa Francesco – rimarca Vendola – è l’unico che incarna il realismo della pace e della conversione ecologica contro l’utopia regressiva della guerra”.
La tregua è finita. A Gaza si è tornato a combattere. E a morire. La tragedia umanitaria è apocalittica. La politica ha alzato bandiera bianca.
La politica muore quando si abolisce il principio- speranza, cioè quando si sopprime l’idea di una alternativa possibile rispetto ad una condizione sociale ed esistenziale che risulta insopportabile. Muore se ignora il peso delle oppressioni e lo strazio degli oppressi, se è un gioco a somma zero, dove si lasciano marcire le contraddizioni e le ferite della storia, se non serve innanzitutto a prendersi cura della vita. Quando la politica muore allora parlano i falchi e il comando torna alle armi, e a quegli apparati militari-industriali che, proprio come nella profezia del generale Eisenhower, condizionano pesantemente i governi, esercitando una sovranità impropria. Dobbiamo dire la verità: la Palestina è stata il grande “rimosso” della politica globale, la dimenticanza colpevole di un’Europa disunita e avvitata nelle proprie nevrosi securitarie e nazionaliste. Oggi è il grande rimorso di un mondo andato in frantumi, che reagisce alla propria crisi riproducendone le cause che l’hanno generata. Che si abbia paura persino di chiedere un “cessate il fuoco” dinanzi alla carneficina in corso, alla strage dei civili e di bambini a Gaza, che appaia inopportuno sollevare la questione della violenza praticata dai coloni israeliani in Cisgiordania, è il segno del tempo oscuro in cui siamo precipitati, ora che persino invocare le regole del diritto internazionale viene denigrato come un gesto di complicità con Hamas.
Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha legato il suo destino politico all’annientamento di Hamas, anche se ciò costerà altre decine di migliaia di vittime. Affermare questo in Italia, per l’informazione mainstream, equivale a essere “amici di Hamas”. Siamo alla militarizzazione di un pensiero unico?
Le responsabilità della destra israeliana sono gigantesche, lo sanno innanzitutto i cittadini di Israele, che oggi alzano l’indice accusatore contro Netanyahu, proprio perché scoprono con dolore, all’alba di quel maledetto 7 ottobre, che aver costruito lo scudo della propria inviolabilità non sulle ragioni della convivenza e della pace, ma con i muri e con la frammentazione del territorio destinato ai palestinesi, non ha salvato i ragazzi del rave e gli abitanti dei kibbutz. Perché i soldati erano altrove, non a ridosso di Gaza governata da Hamas, ma ai fianchi della Cisgiordania, a tutela delle gesta criminali dei coloni che si appropriano di terre e case di palestinesi. Oggi quel premier screditato, che ha tenuto in ostaggio tutta Israele nel tentativo di imbavagliare il potere giudiziario, l’uomo accusato dalla polizia di reati gravissimi, si blinda nel suo ruolo di “premier di guerra”, cerca di liberarsi dei suoi problemi e del suo probabile fine-carriera usando la guerra, la guerra come vendetta, la guerra fino alla distruzione del nemico: una guerra senza strategia, senza visione politica, senza obiettivi davvero misurabili: quando si considera distrutto il nemico? E con una domanda che non si può zittire: quanto valgono le vite dei bambini palestinesi?
Un tempo il no alla guerra e il sostegno all’autodeterminazione dei popoli era un elemento costitutivo della sinistra. Oggi non è più così. Perché?
In realtà il nodo pace/guerra è all’origine della prima grande frattura all’interno delle forze del movimento operaio: il socialismo si dilania dinanzi alla chiamata alle armi, il voto della socialdemocrazia tedesca sui crediti di guerra nel primo grande conflitto mondiale sancisce un punto di rottura politica e persino teorica, visto che l’interventismo militarista e nazionalista era l’esatto contrario della critica radicale della guerra, e cioè del disvelamento della sua natura imperialista. Altro che patria e patriottismo! Milioni di proletari venivano sradicati dalle proprie case, dai propri angoli sperduti di mappamondo, e proiettati nel fango e nel gelo di trincee lontane, in luoghi sconosciuti, come carne da macello, come pedine di un gioco di cui non conoscevano nulla. La guerra va smascherata, non celebrata. Va studiata la sua forma e il suo contesto, per capirne l’evoluzione e intuirne la matrice di economia politica: dalla ferocia primitiva del corpo a corpo e delle baionette alla “modernità” dei mezzi cingolati e di un’artiglieria sempre più sofisticata, dalla battaglia di terra alla battaglia di cielo. La guerra si arricchisce di strumenti sempre nuovi, ingloba tutte le innovazioni fino a divenire lei stessa un “distretto dell’innovazione”. Com’è noto è l’atomica che segna il salto, che indica il punto di non ritorno della storia umana: Hiroshima cambia tutto, la potenza della bomba interroga in radice il pensiero politico e la fede religiosa. Dinanzi all’ombra del fungo atomico la pace è l’unico realismo credibile, ed è il minimo sindacale per un mondo che invoca giustizia. “Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in aratri”: lo vedeva Isaia nella sua profezia. Invece la sinistra che ha smesso di vederlo ha pure smesso di essere vista. Perché la sinistra in direzione contraria alla pace è un ossimoro.
Per Nichi Vendola cosa significa oggi essere “amici d’Israele”?
I veri amici di Israele dovrebbero dire ai governanti d’Israele che essere amici non significa essere complici. Non si può tacere dinanzi al delitto grandissimo che un governo di estremisti di destra e di fanatici religiosi, sta commettendo a Gaza. Non si può girare la testa di fronte a crimini che stracciano il diritto internazionale e che pretendono una sorta di immunità etico-giuridica. Io sono cresciuto leggendo Primo Levi e le storie della Shoah, considero l’antisemitismo la fogna in cui muore il sentimento di umanità, e penso che il 7 ottobre i macellai di Hamas, senza nessuna possibile giustificazione, abbiano scritto una delle pagine più vergognose nella storia umana dell’orrore. Ma nulla oggi giustifica la reazione indiscriminata di Israele che porta l’apocalisse sui civili di Gaza. Perché dobbiamo tacere dinanzi al martirio della Palestina? Davvero non possiamo scegliere di stare, sempre, dalla parte delle vittime? Davvero dobbiamo obbligare la pace al silenzio?
«Quante energie sta disperdendo l’umanità nelle tante guerre in corso, come in Israele e in Palestina, in Ucraina e in molte regioni del mondo: conflitti che non risolveranno i problemi, ma li aumenteranno! Quante risorse sprecate negli armamenti, che distruggono vite e rovinano la casa comune!». Così il Papa nel suo discorso alla Cop28 di Dubai, letto dal segretario di Stato vaticano, cardinale Parolin. «Rilancio una proposta: “con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame” (Lett. enc. Fratelli tutti, 262) e realizzare attività che promuovano lo sviluppo sostenibile dei Paesi più poveri, contrastando il cambiamento climatico». Nessun leader, o sedicente tale, ha questa nettezza e visione “rivoluzionaria”.
Infatti questo Papa è una anomalia assoluta nel panorama mondiale, è l’unico leader che rovescia l’ordine del discorso, che sa con chiarezza evangelica individuare le ferite della “casa comune”, i nessi stringenti tra crisi ecologica e “terza guerra mondiale a pezzi”, tra ciclo del riarmo e geopolitica del capitalismo finanziario. Papa Francesco è l’unico che incarna il realismo della pace e della conversione ecologica contro l’utopia regressiva della guerra. Nella campagna diffamatoria che la destra internazionale ha iniziato contro Bergoglio e contro la nuova leva di vescovi, si insiste molto sull’immagine del pontefice nemico dell’Occidente: come se il pensiero critico e la profezia non fossero costitutivi della cultura occidentale! Ricordo sommessamente che al vertice di questo Occidente sempre più Far West, c’è la contesa tra i due vecchi leader americani, due vecchi maschi bianchi, Biden e Trump: forse sono loro l’immagine più emblematica di un declino che è innanzitutto etico. Chiedere 100 miliardi di dollari per implementare le guerre in corso, mentre il pianeta soffre il caldo e la sete e la fame e la malattia, non è forse il segno di una miseria della politica a cui occorrerebbe ribellarsi?