Riflessioni cristiane
Il teologo commenta il Vangelo della domenica
Oggi inizia il tempo dell’Avvento. Che vuol dire attesa. Attesa del cambiamento. Che però dipende da noi. Un teologo commenta il Vangelo di Marco
Editoriali - di Armand Puig e Tarrech
Per i cristiani inizia domenica il tempo di Avvento, che si conclude con il giorno di Natale, giorno della nascita di Gesù.
Avvento è una parola antica, che si usa raramente, ma potente. I cristiani la usano non perché sono antiquati, ma perché siamo sempre dentro un tempo di attesa, perché la creazione non si è conclusa e dipende da noi, e la storia non è conclusa e dipende anche da noi, e il mondo attende cambiamento.
Il brano del Vangelo è molto concreto. C’è un mondo intero, le proprietà che i servi amministrano e gestiscono, che hanno ricevuto come noi riceviamo il mondo in cui viviamo.
E c’è “un uomo che è partito dopo avere dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito” e che lascia un consiglio che conviene ascoltare: “Vegliate”, perché “non sapete quando il padrone di casa ritornerà”.
Il nostro è il tempo del “tutto e subito”, non fa piacere aspettare, è il tempo della fretta. Verso dove non si sa, ma abbiamo disimparato la lentezza, tempi e pensieri lunghi, ognuno, a ogni livello, anche la politica e chi guida e influenza pensieri e comportamenti, che si trova ad amministrare per un po’ e ad avere più potere – e responsabilità – degli altri.
Per questo c’è un grande bisogno di questo tempo, bisogno di Avvento, davvero. Ma in un tempo di incertezza non fa piacere aspettare, perché non si sa cosa aspettarsi.
Ci chiediamo come affrontare la realtà, i fatti ordinari e straordinari, apparentemente impotenti di fronte a quello che ci arriva addosso all’improvviso, senza sapere dove ci porterà. Per qualcuno è invece stimolante, l’incertezza.
Altri vorrebbero conoscere prima tutti i dettagli, ma altri ancora si difendono dai cambiamenti con l’indifferenza, convinti che tanto, come si dice, “andrà tutto bene”. C’è un forte istinto, preventivo, per ridurre il rischio di ferirsi o di soffrire. Anche per questo perdiamo l’empatia con gli altri. E questo è incoraggiato socialmente.
La realtà, quella vera, però, non si lascia addomesticare facilmente. Le parole di Gesù sono più realiste della nostra “concretezza”: cosa vale la pena fare di più di fronte alla realtà? Essere vigili o dormire? Vivere le cose con attenzione o lasciarsi trasportare dalla sonnolenza? La realtà non può essere ignorata. C’è un invito a rifiutare di essere i parenti poveri del nostro istinto di conservazione o di possesso.
Accade spesso che mascheriamo un po’ la realtà per non doverla affrontare, come se parlarne possa diventare contagioso e toglierci quel po’ di benessere, anche interiore, che abbiamo. Mascherare, relativizzare la realtà, tenerla a distanza. O trasformarla? O impegnarsi per trasformarla, facendo dell’attesa il tempo del cambiamento?
La parabola del portinaio che vigila parla di un uomo a cui è stato affidato il compito di essere guardiano di una tenuta agricola. Deve controllare gli accessi, le entrate e le uscite delle persone, chi lavora e vive all’interno e chi viene da fuori. Deve capire chi arriva, farlo entrare o aspettare.
Tra i compiti che il padrone ha assegnato andandosene è menzionato solo il ruolo del portiere. Stare alla porta e accertarsi che nessuno abbia cattive intenzioni, o, anche, come può essere più utile all’interno.
Ovviamente la responsabilità aumenta durante la notte, perché è allora che il Tesoro, la proprietà diventa più vulnerabile. In quel momento, quando tutto è più buio e si vede poco, quel portiere ha più responsabilità. Ma non c’è niente che dica che il pericolo venga da fuori. Anzi.
L’invito a vegliare è rivolto a tutti e a ciascuno, vale per chi lì ci abita, in primo luogo al portiere stesso. “Vegliate!”. E’ un antidoto all’abuso di potere, all’appropriarsi di quello che si amministra e che non è proprio, escludendone altri, visto che il padrone di casa ha lasciato tutto a quei servi diventati amministratori a pieno titolo.
Il portiere si gioca molto accettando quel lavoro. Può succedere che il padrone ritorni all’improvviso, quando il guardiano non se lo aspetta, in un tempo senza luce solare: di sera, a mezzanotte, in piena notte o all’alba.
Chi smette di vegliare, il portiere che dorme per primo, non avrà scusanti. Avrebbe dovuto essere sveglio e si è addormentato.
Ecco il problema: dormire invece di svegliarsi. Quando ci addormentiamo diventiamo vulnerabili, come il portiere della parabola di Gesù. Rischiamo di non essere più al nostro posto, e di non vedere la realtà che ci circonda. Se mezzi addormentati siamo facilmente manipolabili.
Il Vangelo di Marco entra in una delle grandi tentazioni contemporanee: quella di eliminare e allontanare da sé le sofferenze degli altri e del mondo, l’abitudine a cercare anestetici, la corresponsabilità di ognuno a costruire e vivere in un mondo anestetizzato, dove i rumori di guerra arrivano ovattati e non ci riguardano, il dolore degli altri, la domanda di essere presi sul serio, diventa brusio confuso.
Gesù dice: “Vegliate, perché non sapete quando sarà il momento”. Vegliare non è solo stare attenti a evitare i pericoli, ma anche la capacità di cogliere quello che non ci si aspetta, riaprirsi alla sorpresa, alle sorprese della storia e a quelle nella vita attorno a noi.
Non c’è niente di impossibile, anche in pieno inverno, anche nella neve, possono nascere fiori. Forse la durezza si trasformerà in tenerezza, forse la rabbia lascerà il posto alla pace del cuore. Tutto è possibile, tutto può cambiare.
Ma dipende anche da noi. Intanto non dobbiamo gettare la spugna, non ritirarci nelle nostre insoddisfazioni, non chiuderci nel nostro mondo ristretto, dove l’arrivo di altri, anche delle buoine notizie, “vangelo”, preoccupa.
Può essere, se non lo lasciamo scivolare via, il tempo dello stupore e del cambiamento: perché da una vergine nascerà un bambino, e quando nasce un bambino la natura ritorna alla vita, e la vita riempie ogni cosa, compresi i cuori addormentati che hanno bisogno di svegliarsi e rinascere.