Parla lo storico
Perché Netanyahu aveva il dovere di reagire agli attacchi di Hamas, parla Gadi Luzzatto Voghera
Lo storico: «Di fronte a una organizzazione terroristica che continua ad agire anche se è sotto attacco uno Stato democratico difende i propri cittadini. Una società attaccata si ricompatta, Israele però non ha perso lo spirito critico neppure per un momento»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
“11 Settembre” d’Israele, la guerra di Gaza. Il rapporto tra la diaspora ebraica e lo Stato “focolaio nazionale” del popolo ebraico. L’Unità ne parla con una delle figure più autorevoli dell’ebraismo italiano: Gadi Luzzatto Voghera. Storico, ha insegnato Storia Contemporanea e Storia degli ebrei presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e al Boston University Study Abroad Program a Padova.
È stato il direttore scientifico della Biblioteca e dell’Archivio della Comunità Ebraica di Venezia. Dal 2016 dirige la Fondazione Cdec, Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, a Milano. E’ autore, tra gli altri saggi, di Antisemitismo a sinistra (Einaudi, 2007).
Mille intellettuali ebrei, tra i quali Naoim Kleim e David Grossman, hanno firmato una lettera aperta nella quale, pur condannando fermamente il sanguinoso attacco di Hamas del 7 ottobre, hanno stigmatizzato la guerra a Gaza, sostenendo che il primo ministro Benjamin Netanyahu ha agito in quel modo per tornaconto politico personale piuttosto che per il bene d’Israele. Lei come la vede?
Certamente Netanyahu ha il suo tornaconto personale, ma da quel punto di vista ormai non è salvabile, nel senso che è responsabile di un governo che non ha visto un pericolo che pure gli era stato segnalato e quindi come Golda Meir nella guerra dello Yom Kippur, ha dimostrato, pur avendo alle spalle una potenza militare all’altezza, di non essere in grado di prevedere e dunque di scongiurare l’immane tragedia che c’è stata. Ma questo, secondo me, non è un tema centrale…
Perché, professor Luzzatto Voghera?
Nel senso che anche l’avesse fatto, non l’avrebbe fatto in “our names”. Ci sono state delle derive dell’attuale Governo israeliano di distorsione della Shoah, mettendola in relazione a ciò che, pur gravissimo, è avvenuto il 7 ottobre. Ma sono state forzature, provocazioni immediatamente rintuzzate da autorevoli istituti. Lo Yad Vashem, ad esempio, è intervenuto in maniera molto forte per censurare il gesto fatto dall’Ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite di mettersi sulla giacca la stella gialla. Non si possono paragonare le due cose. Detto questo, c’è però da aggiungere subito una cosa sulla quale non vi possono essere ambiguità né reticenze…
Vale a dire?
Netanyahu non fa quello che ha fatto dopo il 7 ottobre a nome e per conto di tutto popolo ebraico, nel cui nome lui come nessun altro può arrogarsi il diritto di parlare. Lo fa, a ragione, perché sul piano politico e istituzionale spetta a lui, come a qualsiasi altro presidente del Consiglio di un Paese democratico che subisce un attacco terroristico di quella portata, approntare una reazione di fronte alla mattanza di persone, in stragrande maggioranza civili, uccise o prese in ostaggio da una organizzazione terroristica. Un premier attiva forme di guerra per evitare che questa tragedia si ripeta. In questo non sono d’accordo con l’appello dei mille intellettuali. Perché uno Stato-nazione si muove in questo modo. C’è una organizzazione terroristica che continua ad agire, anche sotto attacco da quasi due mesi, bombardando, lanciando missili, da tutte le parti, sia dal nord che dal sud, e dai territori occupati che pure sono un problema molto grave. Il che vuol dire che l’operazione era ben orchestrata e preparata da tempo. Di fronte a tutto questo, uno Stato democratico difende i suoi cittadini. Che poi la guerra sia di per sé qualcosa di amorale, questo lo sappiamo. Ma discutiamone. In tutte le guerre ci sono purtroppo vittime civili sulle quali piangiamo, speriamo di smetterla il più presto possibile, siamo d’accordo, ma non vedo come in altro modo Israele avrebbe potuto reagire. Certamente non attivando una trattativa e riconoscendo politicamente Hamas come interlocutore. Non è plausibile.
Nella sua storia sofferta e segnata da conflitti, Israele si è sempre ricompattata di fronte alla minaccia, esistenziale, portata da nemici esterni. Stavolta non sembra così. Le polemiche sull’operato di Netanyahu e del suo governo, prima e dopo il 7 ottobre, non sono state accantonate. Lei come lo spiega?
Questa articolazione c’è, ma non riguarda solo gli avvenimenti del 7 ottobre e successivi. C’è stata anche in altri momenti. Io mi ricordo Sabra e Chatila. Personalmente facevo parte dei 400mila che hanno manifestato in piazza, a Tel Aviv. E c’era un Paese in guerra. E’ una novità per il mondo della comunicazione in Europa ma non lo è in Israele. Un Paese dove esiste, da sempre, una dialettica politica molto accesa, che permane anche durante la guerra, a prescindere dal ricompattamento del corpus sociale, che è in grado comunque di considerarsi un unicum. E questo riguarda tutte le componenti del corpo sociale, compresa la minoranza araba, compresi i drusi, compresi i beduini, che si sono sentiti attaccati, perché lo sono stati. Hamas non ha chiesto la carta d’identità prima di compiere i massacri nei kibbutz o al rave party. Una società sotto attacco si difende prima di tutto compattandosi. Israele è abituata a farlo. Stavolta ancor di più. In passato ci sono stati altri episodi di guerra in cui l’attacco riguardava una parte del Paese, limitato, il 7 ottobre si è trattato di un attacco generalizzato. Il ricompattamento c’è ma, basta leggere un giornale israeliano o ascoltare una trasmissione televisiva o radiofonica, per rendersi conto che non si è smesso di utilizzare neanche per un minuto lo spirito critico. Io continuo a martellare su una cosa che qui da noi potrebbe sembrare incredibile…
Di cosa si tratta?
La Radio dell’Esercito israeliano. Che come tale si pensa che dovrebbe dare istruzioni per l’uso, invece ha trasmissioni radiofoniche di grande critica, di grande apertura, in cui si dà voce a tutti. Sono quasi tentati di chiedere elezioni anticipate se non fosse che sarebbero ingestibili, visto che metà della società israeliana è dislocata in parti segnate dalla guerra o impegnate nella guerra. A ciò va aggiunto che quella in corso appare sempre più come una guerra regionale, con tantissimi attori diversi. E questo trasmette alla popolazione israeliana un sentimento di fragilità. Quando arrivano missili dallo Yemen o minacce dall’Iran, la situazione cambia, e non poco, di prospettiva.
Se c’è un Paese dove la memoria storica è elemento fondante della identità nazionale, quel Paese è Israele. Oggi quella memoria non rischia, più che in altri momenti, di essere strumentalizzata per ragioni che con quella storia, con la Shoah, non hanno nulla a che vedere?
Decisamente. Ma siamo ad un passo oltre. A me ha sempre colpito che capi di Stato o di governo in visita ufficiale in Israele, vengano portati, come prassi diplomatica, in primis a visitare lo Yad Vashem, il Mausoleo dell’Olocausto, come se quel luogo fosse l’atto fondativo dello Stato d’Israele. Cosa che non è. Si tratta di una distorsione ottica molto forte. Ed è un uso che viene fatto non dalle origini dello Stato d’Israele, ma che fa parte, in qualche modo, di una storia politica d’Israele, dominata per molti decenni da un establishment europeo, ashkenazita, che anche se era in polemica con la diaspora europea e il suo non saper riconoscere il peso dell’antisemitismo e delle persecuzioni, di quella storia era figlio. Adesso le componenti sociali dell’Israele politico come della società sono talmente variegate, non appiattite sulla memoria della Shoah, che non basta più quel riferimento a ricompattare il Paese. La memoria cambia. I processi sono molto lunghi e complessi.
Mi riferisco anche all’Italia. I presidenti delle più grandi comunità ebraiche nel nostro Paese, quelle di Roma e di Milano, sono due ebrei di origine libica, nati in Libia. E sono figli di pogrom arabi verso la popolazione ebraica vissuti sulla loro pelle. Sono memorie di persecuzioni, sempre, che però cambiano e che ci costringeranno, tutti, non solo Israele, a rideclinare l’intera faccenda.
Nei mesi della rivolta contro quello che veniva definito il “golpe giudiziario” del governo Netanyahu, Haaretz titolava: “Un Governo in cui i ministri fanno a gara a chi è più fascista”, al punto che un ministro razzista e fascista, come Ben-Gvir, può incidere sulla guerra.
Per fortuna costui non fa parte del gabinetto di guerra. Cosa peraltro incredibile, che il ministro della Sicurezza nazionale, responsabile della polizia che nel primo giorno ha perso più di trecento uomini, non sia nel gabinetto di guerra è un segnale, positivo direi, vuol dire che qualcuno di intelligente nel mondo esiste ancora. Detto questo, Israele, come il popolo ebraico in generale, è un organismo normale, in cui la politica è di destra e di sinistra, anche di estrema destra ed estrema sinistra. La teoria politica non guarda in faccia alla storia, se è funzionale a un progetto politico di conquista del potere, vale ovunque. L’uso politico della storia è uno “sport” che viene praticato a tutte le latitudini, in Italia moltissimo, e anche in Israele.
A settembre sono stati i trent’anni della firma degli Accordi di Oslo-Washington. Cosa è rimasto di quella stagione di speranza?
La prospettiva di dare concretezza politica a una convivenza che nei fatti, dal punto di vista sociale come da quello economico, è “naturale”, inevitabile. In un fazzoletto di terra come quello non può essere diversamente, a meno che non si creino muri, barriere artificiali o legislazioni particolari. Quella prospettiva teorica c’è, deve essere valorizzata. Ma questo rimanda a un problema comune, sia in campo israeliano che in quello palestinese.
Quale, professor Luzzatto Voghera?
Identificare leadership politiche in grado di prendere coraggiosamente in mano tutta questa partita, quella della soluzione a due Stati, e ricominciare a lavorarci. Nel mondo palestinese è molto complicato, perché è un mondo che è andato via via ideologizzandosi in maniera molto visibile e con sponsor esterni. La struttura della società palestinese è una struttura secolare, visibile ancora adesso. Una struttura molto forte, legata a grandi famiglie che controllano parti importanti di territori. Francamente mi sfugge come questa realtà non riesca a prendere il sopravvento sulle sovrastrutture ideologiche, delle quali Hamas è parte attiva. Ma non è la sola a marchiare e ipotecare il futuro di un popolo, quello palestinese, e a minacciare la sicurezza del popolo israeliano.