Il mito del presidente

JFK, un riformista che non ce l’ha fatta

Prudente sui diritti civili, profilo moderato, piuttosto belligerante: l’ascesa di JFK arrivò da posizioni liberal. L’attenzione al sociale ci fu, certo. Ma a fare davvero le riforme fu Johnson

Editoriali - di Michele Prospero

23 Novembre 2023 alle 16:00

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John Fitzgerald Kennedy
John Fitzgerald Kennedy

Gli studi politici tendono a sottrarre John F. Kennedy dal piano agiografico del mito per restituirlo alla dimensione prosaica della storia reale.

L’immagine più efficace, utile per cogliere la discontinuità che la sua presidenza introdusse comunque nel sistema dei poteri americano, l’ha fornita Arnaldo Testi (Il secolo degli Stati Uniti, Il Mulino, 2008). Sino ad Eisenhower, l’inquilino della Casa Bianca operava secondo le scansioni di un tempo lento ed era così padrone del fluire delle ore da potersi in maniera del tutto rilassata concedere una partita a golf.

Con il presidente cattolico (il primo), giovane, facoltoso ed ex studente ad Harvard, irruppe invece la figura del leader nevrotico che si propone come decisore iperattivo. Indulgendo agli sprazzi di vitalismo che il documento d’identità e il carattere gli permettevano, Kennedy interpretò energicamente le estensive attribuzioni del mandato che allora richiedeva un cambio di marcia.

La sensazione diffusa di una presidenza stanca, con un’America in affanno nell’esercizio della egemonia internazionale, fu raccolta dagli strateghi democratici come una occasione da sfruttare. Nell’era atomica, che rendeva evanescente la barriera protettiva dei due oceani, per rintuzzare l’espansionismo sovietico era necessaria la guida vigorosa di un leader su cui cucire l’iconografia del nuovo.

Centrale divenne così l’evocazione di un presidente predestinato. L’ambizioso e ricco uomo politico di origine irlandese, all’inizio dell’impervio tragitto per la nomination, si presentò in televisione accanto ad Eleanor Roosevelt. La trovata serviva per scaldare le componenti più progressiste della base democratica e sbarazzarsi dei rivali interni.

Ottenuta la candidatura, tuttavia, Kennedy badò presto a non esporsi troppo a sinistra. Egli puntò verso il centro oltre lo schema “liberalismo versus conservatorismo” proprio per archiviare l’eredità ideologica degli anni Trenta. In frangenti che esibivano ancora i retaggi tutt’altro che consumati della caccia alle streghe, mentre in alcuni Stati (come il Massachusetts) era visibile la persistenza della “più meschina forma di persecuzione dei rossi”, Kennedy “evitò accuratamente di prendere posizione” (David Halberstam, The Best and the Brightest).

La conquista della Casa Bianca avvenne attorno ad una piattaforma alquanto moderata. Il volume di Theodore H. White (The Making of the President 1960) ripercorre da vicino la prima battaglia presidenziale combattuta sotto i riflettori di un’assorbente copertura televisiva. A settembre del 1960 Nixon era dato in testa con il 47% dei consensi contro il 46.

La costruzione sagace della campagna elettorale, che ricorreva ad una efficace tematizzazione concepita su basi scientifiche grazie al coinvolgimento degli esperti in sondaggi e in statistiche, fece salire Kennedy. I maghi dei numeri pesavano anche la più piccola oscillazione delle preferenze a seguito di un dibattito, misuravano in particolare le impennate e le cadute del gradimento dopo un preciso accorgimento lessicale.

Il tema più caldo dell’agenda, sul quale Kennedy insistette molto ottenendo tra i telespettatori un punteggio elevato di condivisione (62 contro 38), fu quello relativo al sentimento del declino americano. L’ultimo dibattito in tv, secondo il rilevamento di Gallup, vide lievitare Kennedy stimato al 51%, con Nixon dato invece al 45. I dati reali confermarono la prevalenza del rampollo della dinastia di Boston con uno scarto però di appena 100mila voti, e tante parole su brogli e accordi opachi.

Nella sua nuova veste di realista, Kennedy appariva agli osservatori non certo come “una figura romantica, ma piuttosto come un politico freddo, abile, moderno, scettico, ironico e aggraziato” (White, The Making of the President 1960). L’aspirante comandante in capo era mutato e “non aveva più molto bisogno dei liberal, i quali peraltro non avevano nessun altro posto dove andare. Non era più il Kennedy che per vincere le primarie aveva ostentato credenziali liberal contro i liberal Humphrey o Adlai Stevenson. Si trovava di fronte a un candidato come Nixon che nelle precedenti tornate aveva afferrato l’ascia di guerra contro i democratici accusati di morbidezza nei confronti del comunismo, a tal punto che persino Eisenhower, a volte, si sentiva a disagio per una tale retorica. Quindi Kennedy si spostò verso destra per rassicurare l’America, nello sforzo di sembrare in modo convincente maturo, tenace e anticomunista” (Halberstam, ivi).

Le prime mosse “pragmatiche” del nuovo presidente furono ispirate da una mistica venerazione dell’establishment (grandi studi legali, istituzioni finanziarie) e da una infatuazione per le élite, da coinvolgere in virtù delle loro competenze qualsiasi fosse il colore politico. Allorché chiese ad un influente consulente indipendente che cosa pensasse il mondo finanziario circa la visione economica del suo consigliere John Kenneth Galbraith, Kennedy “fu molto divertito quando Lovett rispose che la comunità riteneva che fosse un bravo romanziere”.

Gli intellettuali liberal non accolsero la conversione di Washington alle ragioni di “una politica della modernità” la quale, in ossequio ai dettami del pragmatismo, accettava passivamente la narrazione di uno scontro senza tregua tra democrazia e totalitarismo. Non bastò a farli ricredere l’attenzione riservata ai diritti civili, con il gesto compiuto dopo l’omicidio di Medgar Evers nel Mississippi, quando il presidente Kennedy invitò la vedova e i figli alla Casa Bianca.  Agli occhi dell’aristocrazia politico-culturale di sinistra, la carta anticomunista era una semplice invenzione del complesso militare-industriale.

In nome della resistenza davanti all’integrazione delle credenze dominanti nel quadro politico, i pensatori più radicali consideravano “il presidente come il Tentatore, che utilizzava le lusinghe del potere, del fascino, della ricchezza e dell’adulazione per indurre gli uomini di cultura a tradire la propria vocazione e a diventare gli strumenti di quella che C. Wright Mills aveva definito ‘l’élite del potere’. Prima di morire, proprio Mills dichiarò di vergognarsi di essere americano, e soprattutto di avere Kennedy come suo presidente. Lo storico di Harvard Stuart Hughes consigliò agli Stati Uniti ‘an approach to peace’ sulle orme della Svezia o della Svizzera, o anche dell’India” (Arthur M. Schlesinger, A Thousand Days).

La “presidenza imperiale” esige una capacità di decisione tempestiva per mostrare il controllo dell’intero scacchiere internazionale. Il contenimento della Russia in Europa e nel Terzo Mondo, la gestione delle crisi di Cuba, di Berlino e del pantano vietnamita, evidenziarono un divario tra la politica degli annunci, che seguivano l’apologia kennediana, e l’effettiva esecuzione dei progetti.

Sterile fu l’incidenza dell’amministrazione Usa nel conflitto tra “l’Europa carolingia” ipotizzata da de Gaulle e “l’Europa atlantica” auspicata da Kennedy, più rilevante si rivelò invece l’insistenza per aprire al Partito socialista in Italia. Su quest’ultimo fronte, il presidente si mosse in disaccordo con il conservatorismo dei funzionari del Foreign Service.

“Fanfani e Kennedy si erano incrociati per la prima volta alla convention democratica di Chicago nel 1956. Kennedy aveva deliziato Fanfani dicendogli che aveva letto il suo libro Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo. Quando si incontrarono di nuovo nel 1961, sebbene l’apertura ai socialisti non fosse formalmente all’ordine del giorno, Kennedy confidò a Fanfani in privato che, se come primo ministro l’avesse reputata una buona idea (come fece), l’America avrebbe osservato gli sviluppi con simpatia” (Schlesinger, ivi).

Il distacco tra il desiderio di una “nuova età augustea” e la realtà della mancata implementazione delle scelte essenziali non può che affiorare nella valutazione di una leadership consolidatasi nel culto dell’attivismo. La liquidazione kennediana dei vecchi attori politici a vantaggio di una squadra di trenta-quarantenni svelò non poche crepe nell’attitudine alla realizzazione.

“Più che a verificare la validità dei loro programmi e delle loro politiche, e la corrispondenza tra essi e gli ideali di cui si dicevano portatori, i nuovi dirigenti spenderanno la loro fredda passione, più di tecnocrati e intellettuali che di politici formatisi nelle lotte di partito e nella vita pubblica, sui metodi e le tecniche per attuarli, rischiando di perdere di vista i valori di umanità e i problemi di storia e di cultura che di quegli ideali erano alla base” (G. Mammarella, Storia degli Stati Uniti dal 1945 a oggi, Laterza).

Le analisi sul “processo di policy-making” effettuate dal politologo Theodore J. Lowi (Arenas of Power) aiutano a comprendere quanto la presidenza circondata da un alone romantico abbia rappresentato una cesura non solo sul terreno dell’immaginario, ma anche su quello concreto dell’azione di governo. La crescita esplosiva delle politiche pubbliche vide l’amministrazione federale impegnata in continue leggi redistributive, scritte sotto il pungolo costante dello Studio Ovale che tra le mani aveva rapporti e resoconti specialistici.

I contrasti tra il livello burocratico, il Congresso e la Presidenza accompagnavano le traiettorie di espansione del ruolo dello Stato nell’economia. “In Europa e negli Stati Uniti negli anni Trenta si optò in favore di soluzioni pluraliste per debolezza. Lo Stato fu costretto a condividere la propria sovranità in cambio di sostegno. Negli anni Sessanta le strategie pluraliste non furono imposte ai leader nazionali, ma furono perseguite volontariamente come la massima espressione della loro ideologia” (Lowi, ivi).

Nella sua condotta di governo, Kennedy camminava veloce nella politica estera e militare mentre arrancava su quella sociale. Agevolata da un Congresso a trazione democratica, tanto alla Camera (263 contro 174 repubblicani) quanto al Senato (65 contro 35), la Casa Bianca fu incoraggiata nell’ampliamento delle spese in armamenti, nell’autorizzazione dei fondi per le ricerche spaziali e i programmi di difesa, laddove il riformismo si impantanò proprio sulle innovazioni economiche e sociali (eclatante fu l’insubordinazione dell’ordine dei medici dinanzi alla misura “socialista” dell’assistenza sanitaria).

Le politiche anticongiunturali kennediane rimasero strozzate dalle lealtà politiche regionali più che di partito. Per un paradosso storico-politico assai rivelatore, il compimento del sogno riformatore maturato negli anni ’30 non si ebbe con il giovane, colto, agiato, dinamico, telegenico e nuovista Kennedy, ma con il presidente Johnson, vale a dire con un profilo “né intellettuale né elegante, corpulento e facile al turpiloquio, con una lunga esperienza legislativa iniziata negli anni Trenta all’ombra del New Deal, potente e spietato nelle lotte di potere della capitale” (Testi, ivi).

23 Novembre 2023

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