La guerra in Medioriente
“L’Europa scelga da che parte stare: con gli USA o con la pace”, parla Raniero La Valle
«La fine della Guerra fredda ha riabilitato la guerra. L’idea della guerra che aveva sempre determinato i rapporti internazionali è stata riguadagnata dagli Stati uniti, che ne hanno fatto il modello per quella contro l’Iraq»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
La tragedia di Gaza e i balbettii della sinistra. Un tema scomodo. Ne discutiamo con Raniero La Valle, scrittore, saggista, politico.
Nei giorni scorsi l’Unità ha scritto, a commento della manifestazione di Roma del Pd: “Ascoltare per circa due ore i discorsi a piazza del Popolo, nei quali si affrontavano questioni serissime, che io conosco bene, ma senza neanche accennare alla guerra e al genocidio del popolo della Palestina, faceva male”. Perché questa sottovalutazione, perché questi balbettii a sinistra?
Non so perché l’attenzione, l’impegno, il coinvolgimento di quelli che oggi sono considerati o passano per partiti di sinistra, sia meno forte, consapevole di quanto lo fosse in passato. Io so solo una cosa…
Quale?
Che nel passato il tema della pace, del rapporto tra le potenze, dell’ordine del mondo era un grande movente della politica e delle scelte della sinistra, in particolare del Pci. La pace, una visione del mondo e delle relazioni internazionali, non solo avevano un ruolo centrale nella proposta politica ed anche elettorale del Partito comunista ma aveva anche un grande riscontro elettorale. C’era moltissima gente che senza aderire alla prospettiva generale, complessiva, del comunismo, del socialismo, del superamento del capitalismo, cose più specifiche e per ciascuno magari più importanti, rispetto alla pace e alle relazioni internazionali, tra i popoli e non soltanto tra gli stati, orientava il suo voto, le sue scelte verso i partiti di sinistra aldilà delle opzioni ideologiche o politiche. La stessa Sinistra indipendente, che è stata l’esperienza politica che noi abbiamo fatto anche con molti cattolici, valdesi, democratici non credenti, era in gran parte fondata sulla convergenza, sulla condivisione dei temi della politica estera. E da questa considerazione discende la domanda vera…
Vale a dire?
Che cosa c’era allora in gioco? Perché questo suscitava un coinvolgimento che invece oggi non esiste?
Le sue di risposte?
Al fondo c’erano due grandi questioni. La prima, era il pericolo di una guerra mondiale nucleare. Da pochi anni eravamo usciti dalla esperienza spaventosa della Seconda guerra mondiale, a cui si era aggiunto lo scempio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Lo spettro di un nuovo conflitto mondiale, addirittura nucleare, era qualcosa che determinava i comportamenti non solo delle opinioni pubbliche ma anche dei governi. Era un periodo in cui per definizione la guerra non si doveva fare. Anche le grandi potenze erano tutte all’interno di questa cultura, secondo cui si doveva evitare la guerra, anche se non era per ragioni etiche o umanitarie, però c’era questa idea che la guerra non si poteva fare. Il coinvolgimento dell’opinione pubblica era in questo senso: la guerra non si deve fare. E questo era già una ragione di un impegno nei confronti della politica estera.
E la seconda ragione?
Era che in quel momento, all’interno di questo grande problema generale della guerra mondiale, c’era un mondo in ebollizione. C’erano molti paesi, molti popoli che erano in via di liberazione, che si battevano eroicamente per raggiungere questo obiettivo, per realizzare questo sogno. C’era una spinta molto forte di solidarietà, di coinvolgimento, di partecipazione alle lotte di questi popoli. Quale era, ecco un’altra domanda cruciale, la ragione per cui in Italia c’era questa forma di compartecipazione politica con i partiti della sinistra, in particolare con il Pci. La ragione la direi così. Perché quello che vigeva in Italia era, in qualche modo, l’obbedienza allo schieramento atlantico, all’alleanza con gli Stati Uniti, che aveva le sue ragioni politiche ma non poteva determinare qualsiasi comportamento. E allora il punto di una possibilità di una scelta diversa, di un’alternativa, di un appoggio alle lotte dei movimenti di liberazione anche contro i vecchi imperialismi, era qualche cosa che portava ad una scelta di sinistra. Lì c’era stato il grande catalizzatore della guerra del Vietnam. Guerra apparsa come una prepotenza, una prevaricazione degli Stati Uniti contro un popolo di cui si riconosceva la dignità, il valore della sua lotta di liberazione, il diritto ad autodeterminarsi anche al di fuori dell’area delle grandi potenze. L’appoggio spontaneo nei confronti di questa lotta era molto forte.
E poi cosa è accaduto?
E’ accaduto che con la fine della Guerra fredda e dei blocchi, quella guerra che era stata esorcizzata da tutti, comprese le grandi potenze, e considerata proscritta, è stata invece rapidamente riabilitata, è stata recuperata. L’idea della guerra che aveva sempre determinato i rapporti internazionali, che per quei decenni era stata per così dire congelata, viene rapidamente ripristinata e riguadagnata in particolare dagli Stati Uniti che ne hanno fatto il modello per la guerra contro l’Iraq, la guerra del Golfo, la cosiddetta guerra umanitaria, per la democrazia.
C’è stata questa riabilitazione della guerra. E d’allora sono ricominciate le guerre convenzionali che prima anch’esse erano considerate non possibili all’interno di quella situazione generale di contrasto tra blocchi e di rischio di guerra atomica. Questa riabilitazione della guerra è diventata opinione comune. Si accetta tranquillamente che si faccia una guerra dopo l’altra, e anche quelle che erano state lotte di liberazione sono oggi abbandonate.
Ad esempio?
L’esempio più attuale e drammatico. La Palestina. Pur all’interno dello schieramento atlantico dell’Italia, era stato un grande tema di un’autonomia della politica estera italiana. Ricordo Andreotti, la Dc, per non restare solo nell’ambito dei partiti della sinistra. Anche all’interno di una solidarietà verso Israele, c’era questa aspirazione ad una soluzione del problema palestinese nei termini di una realizzazione della loro autonomia, della loro libertà e statualità. Oggi tutto questo appare finito. Triste ma vero. Purtroppo.
Per restare alla tragedia di Gaza. A me torna in mente un’affermazione molto forte di un grande intellettuale palestinese scomparso, Edward Said: “La tragedia di noi palestinesi è di essere vittime delle vittime”. Fino a quando il comportamento d’Israele viene da tutti in qualche modo avallato solo in forza del ricordo della Shoah, questo provoca un congelamento del giudizio politico, determina una impossibilità di fare una scelta che possa essere produttiva di conseguenze positive nella vita internazionale.
Il problema di superare il condizionamento assoluto che produce il ricordo della Shoah, di quell’immane genocidio, vale non solamente per le opinioni pubbliche, che si sentono in obbligo di dimostrare continuamente la propria solidarietà col popolo ebraico reduce dai campi di sterminio, ma è qualche cosa che travaglia lo stesso pensiero ebraico, di molti intellettuali, filosofi, scrittori, storici, rabbini, esponenti autorevoli del mondo ebraico e perfino d’Israele. Per restare all’Italia, pensiamo, ad esempio, alla posizione di Bruno Segre: non possiamo essere schiavi della memoria della Shoah. Questa memoria, era il suo messaggio, è produttiva e utile solamente se ci esorta a creare un mondo diverso, un mondo dove le vittime di ieri non diventino i carnefici di oggi, non si alimentino col dolore delle vittime di oggi. Ma nel senso in cui si fa in modo che nessuno debba essere vittima. C’è un articolo molto bello pubblicato su Haaretz da un grande intellettuale, filosofo israeliano, Yehuda Elkana, in cui dice: ci sono nella società israeliana due atteggiamenti nei confronti della Shoah, uno è di quelli che dicono che questa cosa non deve accadere mai più. E altri che dicono questa cosa non deve accaderci mai più. Lui dice io sono con i primi e credo che la seconda posizione è una posizione che ci porta alla catastrofe. Io penso che qui ci sia una lettura molto giusta ed illuminata della situazione dell’Israele di oggi che poi produce le catastrofi. Se si pensa solamente al fatto che si debba preservare soltanto se stessi dalla catastrofe e non anche gli altri, questo porta una rottura del rapporto pacifico e del riconoscimento dei diritti altrui.
Molto si è banalizzato sul tentativo di diversi esponenti del mondo della cultura, prim’ancora della politica, di dar vita, per le prossime elezioni europee, ad una lista per la pace, che la vede coinvolto.
Il problema è riuscire ad influire sull’identità e sulle scelte politiche dell’Europa. Il vero problema non è tanto chi rappresenta i singoli paesi nel Parlamento, quanto che si riesca ad imprimere un indirizzo diverso alla soggettività, alla coscienza di sé, al ruolo che l’Europa deve avere nel mondo. Se oggi c’è da costruire un ordinamento mondiale che non sia fondato su un sistema di guerra ma lo sia un sistema di pace, l’Europa deve avere un ruolo, una soggettività sul piano internazionale per portare i suoi alleati ma anche i suoi avversari su posizioni in grado di costruire un vero ordine mondiale pacifico. Di questo si tratta. Oggi ci sono due concezioni che si contrappongono: una è quella che sta scritta in tutti i documenti ufficiali della strategia americana, secondo cui il mondo è un luogo di competizione globale, in cui qualcuno deve vincere sugli altri, e naturalmente gli Stati Uniti si propongono come quelli che devono vincere questa partita e per questo accumulano armamenti, hanno il bilancio delle spese militari più ingente di qualsiasi altro paese al mondo. E poi c’è un’altra idea secondo cui non è affatto detto che la pluralità degli stati o delle potenze debba manifestarsi unicamente attraverso una lotta degli uni contro gli altri per la prevalenza dell’uno o dell’altro, per quella che potrebbe essere una egemonia ma che poi diventa di fatto una forma di dominio imperiale. Non è scritto da nessuna parte che debba essere così. L’ordine fondato sulla competizione, sulla ricerca della creazione di un unico impero, è un ordine micidiale che necessariamente porta alla guerra. Mentre un ordine pluralistico, multilaterale, che riconosce la varietà delle culture, delle tradizioni, degli ordinamenti giuridici, è l’unico ordine possibile per un mondo integrato, tecnologizzato come è quello di oggi.