La "guerra etica"
La dottrina Biden è pericolosa e inefficace: va recuperato il disegno di un ordine multipolare
Isolato dal mondo arabo, ridimensionato dal calo demografico e dalla perdita del primato economico, si inganna dirottando tutte le sue chance sul potenziale tecnologico-militare. Va recuperato il disegno di un ordine multipolare
Editoriali - di Michele Prospero
Tra rivolte per il pane, rischi di escalation e prove di caccia all’ebreo in Daghestan, il Corriere non trova di meglio che invitare a spezzare “il tabù delle armi” per affidare alla carneficina la distribuzione delle ragioni e dei torti.
È evidente che l’attuale disordine mondiale può precipitare in una ostilità generalizzata entro cui sfumano in maniera irreversibile le possibilità di controllo degli attori (statali e non). Anche la condizione di guerra, nella fondazione della modernità europea, non sfugge all’istanza di una superiore direzione della politica.
Oggi invece, nell’eclisse spaventosa della razionalità maturata in quella che Hobbes chiamava “questa parte occidentale di mondo”, la politica non si sottrae alla presa avvolgente della logica di guerra. Ci sono in giro tanti cantori della guerra etica, che si riempiono la bocca delle parole occidente, democrazia, laicità senza neppure rendersi conto che sono proprio le loro riesumazioni di categorie teologiche (come dicono a via Solferino “si combatte per la vita o per la morte”) a proiettare al di fuori della società aperta.
Anche accantonando lo schema della dura riprovazione morale delle bombe, per adottare l’impianto realistico di Machiavelli (“la guerra è giusta se è necessaria”), bisognerebbe chiedersi se, nelle tante situazioni critiche che sconvolgono le relazioni internazionali, la guerra sia per davvero lo strumento utile a risolvere le controversie.
La confusione è tanta sotto l’incalzare del fuoco. Lo stesso Biden non fa in tempo a volare in Israele per raccomandare ai falchi di non ripetere gli errori fatali commessi con le guerre asimmetriche al terrore e agli Stati canaglia che, una volta tornato alla Casa Bianca, ci pensa lui stesso a rilanciare i vecchi arnesi concettuali che, se trasformati in azione, promettono solo catastrofi. Con una evocazione della necessità di attrezzarsi per condurre in contestualità ben tre guerre (Ucraina, Palestina, Cina), il presidente adotta una strategia espansiva nel ricorso alle armi che prelude solo alla guerra mondiale.
Si comprendono le ragioni del disincanto dei giovani e delle componenti liberal del suo partito dinanzi alle esortazioni del comandante in capo a far valere, come chiave del governo del mondo, la mera logica di potenza. Nella guerra di attrito, seguita all’aggressione russa dell’Ucraina, la rinuncia caparbia ad ogni dimensione negoziale ha determinato effetti non positivi per la sorte della causa euro-atlantica.
Oltre alla componente militare, che comporta spese, distruzioni, sacrifici va valutata anche la ricaduta politica delle lunghe ostilità. L’obiettivo della castrazione economica di Mosca non è stato centrato in pieno anche perché denaro e merci avvengono per altre vie, con afflussi che vanificano le speranze riposte nelle sanzioni.
L’isolamento effettivo nello scacchiere internazionale del “macellaio” e “criminale di guerra” che ha ordinato l’operazione speciale è stato nel complesso solo parziale. Alla conversione antirussa dei paesi scandinavi, che temono per la loro integrità territoriale, non corrisponde la generalizzazione di un sentimento antiputiniano nello spazio globale. Il sud Africa conduce esercitazioni militari con Mosca e molti sono i paesi che non censurano con forza lo Stato aggressore (rilevanti sono anche le cautele di India, Turchia).
La cacciata della Russia dallo spazio europeo non è da annoverare come un grande successo visto che la conseguenza del conflitto lasciato marcire è la comparsa di un legame organico di Putin con la Cina descritta dagli americani come la potenza rivale. Assistere alla saldatura della fabbrica economica di Pechino con l’arsenale militare russo non sembra un rilevante successo strategico-diplomatico. Tanto più che la capacità di manovra di Mosca si rivela particolarmente attiva e influente anche in Africa e in Medio Oriente.
Tra i costi politici della guerra vanno annoverati anche i successi di partiti filorussi (Slovacchia, Ungheria, Serbia) e la fine, per le pesanti conseguenze economiche della crisi orientale, della immunizzazione tedesca rispetto alla penetrazione della destra populista. Che la sinistra italiana ed europea, sulla scia degli schemi dei democratici americani, non comprenda che senza una soluzione politica alla guerra vacilla la geografia elettorale di tutto il vecchio continente è un segno della difficoltà dei tempi. Anche nel riacutizzarsi del conflitto tra Israele e Palestina, in seguito agli eccidi di Hamas, colpisce l’afonia della politica come spazio che tratteggia le mosse per il contenimento ragionevole della forza bruta.
Proprio perché Tel Aviv ha alle spalle alcuni decenni di esperienza democratica, in un territorio infestato da autocrazie e fondamentalismi, il suo governo andrebbe spinto dagli alleati ad una condotta conseguente allo status di regime aperto che si mobilita in massa contro le riforme illiberali di Netanyahu.
Non è pensabile che il carattere democratico di un sistema politico con una società civile con sensibilità critiche autorizzi la colonizzazione armata di terre altrui, la pratica di assedio, repressione e conquista degli spazi vitali di un altro popolo. La risposta al terrore e agli atti criminali contro i giovani radunati in un rave party non può estendersi sino ad escogitare pratiche di annientamento di cose e persone che colpiscono in maniera indiscriminata le popolazioni inermi.
La rappresaglia, nella forma limitata autorizzata dal diritto internazionale, non può essere declinata come una cieca propensione ad uccidere che viene percepita, anche da una fetta dell’opinione pubblica occidentale, come l’inizio di una guerra di vendetta. Spiegava Hobbes che “la vendetta è un trionfo o un gloriarsi per il male altrui che non tende a nessun fine ed è contrario alla ragione; è far male senza ragione che si definisce comunemente con il nome di crudeltà”. Le crudeltà che l’esercito esibisce sulla striscia di Gaza non sortiscono un effetto politico positivo per la stessa Israele, che non può pensare di resistere nel suo lembo di terra solo con le sofisticate armi.
Le superiori fortezze, ammoniva Machiavelli, non ti salvano se hai per nemico i popoli. L’auspicio del Corriere di “un ricorso alle armi vero” rientra nelle tare di follia che riemergono nelle memorie dell’occidente. Dopo la conquista di Gaza con l’esercito, non resterebbero che serbatoi di rabbia, sedimentazioni di odio che rigonfiano il partito di Dio. I pronunciamenti dell’assemblea generale dell’Onu (che isolano Israele con un secco 120 a 14), le oceaniche manifestazioni turche, le resistenze dei paesi arabi e le condanne nei campus americani, segnalano una stagione assai compromessa alla quale, per scongiurare l’estensione della contesa, occorre reagire con il rilancio dell’iniziativa politica.
Solo le grandi potenze, con il coinvolgimento dei paesi arabi, possono sciogliere nodi spinosi (insediamenti in Cisgiordania) e dettare le premesse minimali per una soluzione ragionevole alla diaspora palestinese. Nel mondo sono accesi dei grandi conflitti che, sospesi tra Vico e Schmitt, hanno come essenziale materia del contendere la terra, il controllo degli spazi e delle acque. Gli investimenti ideologici (scontro di civiltà, guerra di religione, urto democrazia-autocrazia) servono solo per fuggire dall’assunzione di responsabilità chiare su vertenze geopolitiche.
La dottrina di Biden, che postula tre conflitti come parti diverse di una unica battaglia di civiltà, oltre che pericolosa (segna linee di divisione con fratture così profonde che postulano un conflitto distruttivo su scala mondiale) è inefficace (isola i simboli e i valori dell’occidente che vengono percepiti come maschere di una inconfessabile volontà tardoimperiale). Prenotare, dopo l’Ucraina e la Palestina, una risposta armata da calibrare anche dinanzi alla iniziativa cinese per la conquista di Taiwan, equivale a riconoscere come ineluttabile la guerra globale.
Isolato dal mondo arabo, guardato con distacco dal Brasile, dall’India, dai paesi africani, l’Occidente, ridimensionato dal calo demografico, dal timore di un rimescolamento etnico entro i propri confini (con i segnali di rivolta che vengono dalla Francia), dalla perdita del primato economico (con i paesi del Brics che fanno proseliti quando contestano l’egemonia monetaria del dollaro negli scambi commerciali), si inganna dirottando tutte le sue chance sul potenziale tecnologico-militare nel quale vanta ancora una superiorità confermata anche nelle prove di fuoco ucraine.
Il disegno di un ordine multipolare, sul quale insiste molto la dottrina cinese, va recuperato, anche perché, con le sue cadenze lente, il diritto internazionale non ha valide alternative valide. Se la potenza in ascesa non può essere distrutta, senza mettere in conto gli apocalittici scenari che sono in quanto tali chiaramente insostenibili, non resta che concordare con essa le basi di una condivisa partecipazione agli oneri di una governance mondiale.
Già Bush, scottato anche dalla resistenza della comunità internazionale alle sue tentazioni unipolari giustificate dalle esigenze di sicurezza, dovette archiviare le abrasioni al diritto internazionale per riconoscere che i cardini della legittimità non si piegano alle semplici spinte del potere del più forte.
La costruttività della politica, oltre che la più vicina ai canoni di civiltà e ai canoni del diritto internazionale che l’Europa ha appreso solo con le dure repliche della storia, è anche quella che più conviene all’occidente che solo così può effettivamente preservare, nel tempo nuovo e denso di minacce, i preziosi valori di libertà, laicità, diritto, solidarietà, pace.
La politica non implica affatto una morbidezza al cospetto del terrore ma serve proprio perché i valori dell’Occidente sono importanti conquiste evolutive e, con la dottrina delle tre guerre, rischiano di deperire.