Il disegno di legge
Senatori a vita addio, la riforma presidenzialista e i danni collaterali
Cancellare il potere del Colle e l’ombra dei governi tecnici, per tenere il premier al riparo da “agguati”: è questa la finalità della riforma. Che però è uno schiaffo alla competenza
Editoriali - di Salvatore Curreri
Per quanto marginale, la proposta di abrogazione dei senatori a vita prevista nel disegno di legge di riforma costituzionale è a suo modo coerente con la visione della democrazia di questo Governo.
Una visione in cui alla glorificazione della sovranità popolare corrisponde la riduzione delle forme e dei limiti entro cui essa per Costituzione va esercitata, fosse pure la possibilità per il presidente della Repubblica di nominare governi tecnici di unità nazionale che, come nel 2011 e nel 2022, hanno letteralmente salvato il nostro Paese; oppure, giustappunto e più modestamente, il suo potere di nominare senatori a vita cinque (e dal 2020 non più di cinque) cittadini che hanno “illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario” (art. 59 Cost.).
Il che vale a smentire il già frusto ritornello secondo cui la riforma non toccherebbe le prerogative del nostro Presidente. Ma qual è il ruolo dei senatori a vita? Sono un polveroso retaggio del Senato statutario, quando i senatori venivano in numero illimitato nominati a vita dal Sovrano (di fatto dal Governo)?
Un’anomalia esclusivamente italiana che costituisce una palese violazione della sovranità popolare perché con il loro voto essi tradiscono la volontà elettorale (copyright Grillo) fino al punto addirittura da rovesciarne gli equilibri politici in momenti politicamente decisivi come i voti di fiducia o di sfiducia al Governo?
Sono quindi incompatibili con il principio per cui in democrazia i parlamentari devono essere solamente elettivi? Devono avere gli stessi diritti e doveri degli altri senatori oppure, proprio perché nominati anziché eletti, devono – come sosteneva Cossiga – essere privati del diritto di voto? Oppure, costituiscono una preziosa risorsa in termini di saggezza e di competenze?
Per rispondere a questa e a tante altre domande torna utile il prezioso libro (I senatori a vita visti da vicino. Da Andreotti a Segre, da Fanfani e Spadolini, editore La Vela) che Paolo Armaroli ha dedicato ai trentotto senatori a vita della nostra Repubblica, delineandone la personalità e l’attività parlamentare con quella vividezza e acribia che gli deriva dall’essere in grado come pochi di saper coniugare il rigore scientifico di professore di diritto parlamentare (oltreché di diritto pubblico comparato) con la sua esperienza politica e parlamentare, con l’aggiunta di quella innata arguzia che da quasi cinquant’anni lo fa apprezzare come uno dei più attenti, acuti e godibili commentatori della nostra quotidianità.
Quella di nomina dei senatori a vita è un potere sostanziale del presidente della Repubblica, rispetto al quale la controfirma del Governo ha valore soltanto di controllo formale. In questo senso si è subito orientata la prassi (v. le nomine di Einaudi di cui De Gasperi prese atto, controfirmando), oggi divenuta consuetudine costituzionale grazie anche all’avallo della Corte costituzionale (sentenza n. 200/2006).
Ha ragione Armaroli quando nota, dati alla mano, che i senatori a vita sono stati prevalentemente di centrosinistra e come il laticlavio sia stato assegnato, dando un’interpretazione estensiva ai meriti in “campo sociale”, a politici di professione, come Andreotti, Colombo e De Martino. È pur vero però che, nel caso della nomina da parte di Napolitano di Monti, la carica di senatore a vita è servita a conferire al nominato un crisma d’imparzialità politica, funzionale alla natura tecnica del governo nominato dal presidente della Repubblica.
La carica di senatore a vita non è però un premio alla carriera ma un’altissima funzione pubblica alla quale i cittadini destinatari di tale insigne riconoscimento hanno il dovere di adempiere con disciplina ed onore (art. 54 Cost.).
È davvero sconfortante notare, anche stavolta dati alla mano, come se alcuni senatori a vita hanno svolto e svolgono il loro ruolo con grande abnegazione e impegno, talora nonostante l’avanzata età – e il pensiero non può non andare al fulgido esempio offerto da Liliana Segre – altri senatori a vita (efficacemente definiti “fantasmi”) invece hanno sempre brillato per la loro assenza (nella scorsa legislatura Rubbia nell’89,95% delle votazioni, per non dire di Piano assente in tutte!).
Certo, non si pretende dai senatori a vita di rinunciare al loro “lavoro”, nel nobile senso costituzionale di attività o funzione “che concorra al progresso materiale o spirituale della società”, di cui anzi l’attività parlamentare, per i loro altissimi meriti, potrebbe giovarsi. Anzi, il senso costituzionale della presenza dei senatori a vita è proprio quello di offrire all’attività parlamentare il loro prezioso contributo in termini di competenza, autorevolezza e di prestigio, che gli deriva proprio dagli altissimi meriti acquisiti nel loro campo.
Si pensi, in tal senso, alla meritoria e infaticabile opera svolta della senatrice Cattaneo a difesa della scienza e del suo ruolo importante, anche se non decisivo ruolo, quando si tratta di prendere decisioni politiche che su di essa devono basarsi. È dunque davvero un peccato che personalità così prestigiose, che in diverse occasioni hanno dimostrato di avere a cuore le sorti del Paese, non avvertano la responsabilità di venire in Parlamento quando il loro contributo si rivelerebbe particolarmente importante e nelle occasioni politiche più importanti (e non intendo solo allorquando si tratti di accordare la fiducia al governo).
Di fronte a queste innegabili criticità, il governo intenderebbe ora risolverle una volta e per tutte abrogando i senatori a vita, forse anche per il recondito timore di governi sostenuti grazie al voto, talora decisivo, dei cinque senatori a vita – come fu il secondo governo Prodi, con conseguenti polemiche sulla loro legittimazione democratica, che Armaroli ricostruisce puntualmente (pp. 389-394).
Prospettiva invero scongiurata dallo stesso disegno di riforma costituzionale laddove prevede l’attribuzione anche al Senato di un premio di maggioranza del 55% dei seggi, dando così alle forze politiche collegate al presidente del Consiglio eletto un rassicurante margine di vantaggio.
Per questo motivo, anziché buttare il bambino con tutta l’acqua sporca, si potrebbero ipotizzare soluzioni più moderate e ragionevoli che consentirebbero di non rinunciare al contributo che proprio persone indipendenti e dotate di elevatissime competenze – e Dio solo sa quanto la nostra politica ne abbia bisogno! – possono offrire al dibattito parlamentare, per una volta ispirato non alla ragione della forza (dei numeri) ma alla forza della ragione.
Ad esempio, si potrebbe limitare la durata dei senatori di nomina presidenziale a sette anni (con eventuale divieto di nuova nomina), così da favorire il ricambio di competenze e – magari – sostituire chi non si è dimostrato all’altezza di tale alto riconoscimento. Il libro di Armaroli costituisce anche su questo punto un fondamentale e pregevole memento.