La riforma della premier

Perché la riforma della Meloni è sgangherata e inefficace: presidenzialismo un’anatra zoppa

Se l’intento era quello di portare uno solo al comando, il piano si è rivelato fallimentare. Avremo un presidente del Consiglio ostaggio della maggioranza e dei suoi ministri. Ecco perché

Editoriali - di Salvatore Curreri

2 Novembre 2023 alle 18:30

Condividi l'articolo

La riforma di Giorgia Meloni sul presidenzialismo
La riforma di Giorgia Meloni sul presidenzialismo

Alla fine la montagna del presidenzialismo ha partorito il topolino di un mini-premierato. Perché – checché sostenga la maggioranza di governo che l’ha approvato – di “forte” questo modello di premierato ha solo l’elezione diretta del presidente del Consiglio. Ed è troppo poco. E non basta.

Un presidente del Consiglio è forte non solo perché eletto direttamente dagli elettori ma anche – e soprattutto – perché ha poteri che gli consentono di governare la sua maggioranza; maggioranza – come è noto – di coalizione e perciò frammentata e spesso rissosa, le cui divisioni sono all’origine della cronica instabilità dei nostri esecutivi (65 governi in 75 anni). E questo presidente del Consiglio eletto tali poteri non ce l’ha.

Quello che il Consiglio dei ministri si appresta ad approvare è dunque un testo pasticciato ed incoerente, peraltro scritto male, frutto della scelta d’introdurre l’elezione diretta del presidente del Consiglio (una volta compresa l’inopportunità di quella del presidente della Repubblica) per un verso, però senza toccare le prerogative dello stesso presidente della Repubblica e, per altro verso, senza prevedere il rigido automatismo per cui la sfiducia al Presidente eletto determina l’automatico scioglimento delle Camere, come avviene a livello regionale e locale.

Una quadratura del cerchio inevitabilmente non riuscita. Vado a dimostrare. Secondo la bozza circolata in questi giorni il presidente del Consiglio verrebbe – unico al mondo – eletto a suffragio universale e diretto per cinque anni contestualmente alle Camere tramite unica scheda elettorale. Prima domanda: perché un presidente del Consiglio così eletto dovrebbe continuare a definirsi tale?

Se è vero che nomina sunt consequentia rerum perché non chiamarlo Primo Ministro o Presidente del Governo come si conviene ad un soggetto destinato ad essere non più un primus inter pares ma l’organo che determina la politica generale del governo? Inoltre, per la prima volta, si costituzionalizza – così irrigidendola – la legge elettorale, prevedendo un premio di maggioranza che consenta ai candidati e alle liste collegate al Presidente eletto di ottenere il 55% dei seggi in entrambe le Camere; il tutto però, senza né fissare la soglia minima di voti richiesta dalla Corte costituzionale (sentenze nn. 1/2014 e 35/2017), né optare – scelta tutt’altro che politicamente neutra – tra elezione a turno unico o doppio.

Seconda domanda: perché precisare che la legge elettorale deve basarsi sui principi di rappresentatività e governabilità, se è vero che essi sono presenti, seppur in misura diversa, in tutte le formule elettorali, incluse quelle proporzionali (Spagna docet)? Perché – terza domanda – mantenere la base regionale del Senato se il premio di maggioranza anche in questa Camera verrà assegnato a livello nazionale? E perché – quarta domanda – stabilire addirittura in Costituzione che “il Presidente del Consiglio dei Ministri è eletto nella Camera nella quale ha presentato la sua candidatura” se, molto più semplicemente, potrebbe presentarsi in entrambe e scegliere in quale essere eletto?

Esaminiamo ora la fase dell’investitura parlamentare: il presidente del Consiglio, benché eletto direttamente, deve presentarsi alle Camere per ottenerne la fiducia. Come gli studenti di giurisprudenza di I anno sanno, questa è una sgrammaticatura istituzionale perché se il presidente del Consiglio è eletto direttamente, la sua legittimazione si fonda sulla volontà degli elettori e non delle Camere.

Lo ha detto chiaramente la Corte costituzionale di fronte al tentativo di alcune regioni di introdurre la mozione di fiducia al Presidente eletto direttamente: la scelta dell’elezione diretta “ha quale sicura conseguenza l’impossibilità di prevedere una iniziale mozione di fiducia da parte del Consiglio” (sentenze 372/2004, 379/2004 e 12/2006).

Se è così allora perché – quinta domanda – costringere il Presidente eletto ad un voto fiduciario in cui ha tutto da perdere e nulla da guadagnare? E sì, perché – sesta domanda – se la mozione di fiducia non venisse approvata, il presidente della Repubblica, prima di sciogliere le Camere (con immediata cessazione della legislatura appena iniziata), dovrebbe dare nuovamente l’incarico al Presidente eletto di formare il nuovo governo. Per la serie: “riprova, sarai più fortunato?”; oppure per accanimento terapeutico?

Infine – settima domanda -: perché un presidente del Consiglio eletto direttamente, al pari di quanto può fare un Presidente della Regione o un Sindaco, non può nominare e revocare i ministri della sua compagine? Si è preferito evitare, dopo il caso Savona, uno scontro con il Quirinale? Ma è soprattutto riguardo alla apertura e alla successiva gestione delle crisi (da noi quasi sempre extraparlamentari) che la proposta di riforma è clamorosamente carente.

In base ad essa, infatti, “in caso di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio, il Presidente delle Repubblica può conferire l’incarico di formare il Governo al Presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare eletto in collegamento al Presidente eletto, per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del Presidente eletto ha chiesto la fiducia delle Camere”. Dunque se il Presidente eletto si dimette, per evitare lo scioglimento anticipato, il presidente della Repubblica può affidare l’incarico di formare il nuovo Governo o nuovamente a lui o ad un parlamentare della stessa maggioranza uscita dalle urne che s’impegni a proseguirne il programma. Qui le domande fioccano come la neve.

Ottava: perché non attribuire ad un presidente del Consiglio eletto il potere di proporre lo scioglimento delle Camere per dissuadere preventivamente (parti del)la sua maggioranza dall’aprire una crisi di governo oppure, una volta aperta tramite sfiducia (eventualmente costruttiva), per difendersi da essa facendo appello agli elettori? Il potere di scioglimento a questo serve: a governare i conflitti in seno alla maggioranza agitando lo spettro del ritorno al voto.

Privare il Presidente del Consiglio, per quanto eletto direttamente, di tale potere (peraltro previsto di fatto in Spagna, Svezia e Germania, dove i capi dell’esecutivo non sono ad elezione diretta) significa renderlo ostaggio della sua maggioranza, e dunque di fatto indebolirlo. Inoltre – si sostiene – questa disposizione consentirebbe di evitare i tanto vituperati ribaltoni. Non è così. In primo luogo – nona domanda – come potrebbe tale disposizione evitare che sia lo stesso presidente del Consiglio eletto non solo ad allargare ma a sostituire la sua maggioranza, pur di restare in sella?

L’esperienza del passaggio dal Conte I al Conte II non suggerisce nulla? Si crede veramente che basti la garanzia di un parlamentare (leader?) di una forza politica della maggioranza del Presidente eletto che s’impegni a portare avanti il suo programma politico, quando invece è notorio, in un parlamentarismo trasformista come il nostro, che un parlamentare potrebbe cambiare schieramento, allearsi con una parte dell’opposizione e accusare i suoi ex alleati di aver tradito gli impegni elettorali?  Anche perché tali impegni elettorali sono destinati con il tempo a sfumare perché devono fare i conti con le “prevedibili imprevedibilità” di un mondo globalizzato e digitale come l’attuale.

Infine – decima domanda – è davvero saggio escludere in radice la possibilità, in caso di crisi, di governi guidati da non parlamentari (per questo si abrogano i senatori a vita) che, in nome del supremo interesse nazionale, hanno consentito, in difficili tornanti della nostra storia, di affrontare emergenze come quella finanziaria del 2011 (Monti) o pandemica del 2022 (Draghi)?

Mettete in fila queste dieci domande – che rivelano altrettante criticità – e capirete perché, al netto di quel che viene propagandato, la bozza di riforma approvata prevede un presidente del Consiglio che, a dispetto della sua elezione diretta, non sarebbe forte ma debole.

2 Novembre 2023

Condividi l'articolo