Il futuro del Presidente
Premierato, perché Mattarella è il tallone d’Achille della riforma della Meloni
Gli italiani tengono molto al ruolo del capo dello Stato. Una campagna referendaria giocata contro l’attentato al suo ruolo sarebbe rischiosa per Meloni. Ma è un’arma a cui l’opposizione non intende rinunciare
Politica - di David Romoli
Mattarella non ha ancora firmato lo scarno disegno di legge costituzionale che lo priverà di uno dei suoi poteri eminenti, quello di nominare il premier, e indebolirà, senza però cancellarle anche molte delle sue altre facoltà. Lo farà nel giro di qualche giorno ma il testo, tra una cosa e l’altra, non arriverà in aula prima di aprile-maggio.
Tempo limitato, data la ferma intenzione della premier di incamerare il primo sì delle Camere in tempo per le europee del 9 giugno, ma lei è convinta di farcela: “Se come è praticamente certo la voteremo solo noi e con soli 5 articoli ce la dovremmo fare”. Sempre nei calcoli di Chigi la seconda lettura dovrebbe essere conclusa per i primi mesi del 2025 e a quel punto resterebbe solo da fissare la data del referendum salvo improbabilissimo accordo con l’opposizione. Sarà quasi certamente nell’autunno del 2025.
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La faccenda metterà comunque a dura prova il talento diplomatico, del resto già più volte dimostrato, di Sergio Mattarella. Che all’uomo e al leader politico l’elezione diretta non piaccia affatto è noto. Ma per il massimo rappresentante delle istituzioni il discorso è diverso: non solo non può sbilanciarsi ma non deve neppure permettere che uno dei due fronti, quello del no, faccia della sua figura una bandiera referendaria. In parte però è inevitabile.
Il governo ha un’arma propagandistica potente, non a caso già messa apertamente in campo proprio dalla premier: “Volete scegliere voi chi vi governerà o volete che lo facciano altri al vostro posto?”. Però la formula, poco importa quanto fedelmente trasferita sul quesito referendario che certo non sposterà in maniera sensibile le scelte di voto, ha un punto debole: gli italiani al ruolo del capo dello Stato ci tengono.
Non c’è sondaggio ufficiale o privato che non lo confermi. E’ la garanzia che il ruolo del premier che molti vogliono più forte ma pochi troppo forte, non esorbiti. Una campagna referendaria tutta giocata contro l’attentato al ruolo e ai poteri del presidente sarebbe rischiosa. Per questo, non per tendere una mano all’opposizione, il governo ha rinunciato all’elezione diretta e ha inserito quella norma confusa e confondente sulla possibilità di sostituire il premier eletto almeno una volta. Per lo stesso motivo non intende modificarla a colpi di emendamenti, come pure sarebbe facile fare.
Solo che l’opposizione non ha alcuna intenzione di rinunciare a quell’arma. Dunque a proposito o a sproposito è già partita alla carica su tutti i fronti, certo, ma soprattutto sulla mazzata al ruolo del massimo Garante. In parte è propaganda ma dal momento che quel ruolo viene davvero infragilito gli estremi per fare del capo dello Stato, cioè al secolo di Sergio Mattarella e della sua difesa, ci sono e l’opposizione è decisa a sfruttarli quanto più possibile. Ma le circostanze imbarazzanti per l’inquilino del Quirinale non si fermano qui.
A Chigi ritengono se non certo almeno molto probabile che Mattarella, se la riforma verrà approvata, si dimetterà e che proprio per questo i papabili alla successione, nomi come Luciano Violante o Sabino Cassese, non calchino affatto la mano con le critiche. E’ uno snodo cruciale. Se non si dimetterà, infatti, Mattarella sarà ancora in carica al momento di mettere alla prova l’eventuale riforma dopo le prossime elezioni, altrimenti, nella bolgia che accompagna puntualmente la nomina del capo dello Stato da qualche tempo, tutto può succedere, inclusa la nomina di un presidente pronto a fare da spalla al governo.
L’opposizione spera poi che col tempo emergano divisioni all’interno della maggioranza. E’ molto improbabile. Salvini e Tajani non sono nati ieri e sanno bene che anche la minima divisione su questo fronte sarebbe esiziale per tutti. Ma la riforma impone anche una difficile riforma elettorale e lì il discorso sarà ben diverso perché di fronte alle regole elettorali, questione di vita o di morte per i partiti, non c’è vincolo di maggioranza che tenga.
I vertici di FdI ipotizzano di cavarsela riducendo la riforma al minimo: una conferma della legge attualmente in vigore con appena qualche correzione e una soglia per far scattare il premio di maggioranza che non sarà inferiore al 40% ma potrebbe arrivare al 45%. Ma quando si tratta di legge elettorale le cose non sono mai semplici e non lo saranno nemmeno stavolta.
Se il presidente è il punto debole della maggioranza, l’accusa di conservatorismo è quello dell’opposizione. O almeno così lo considerano gli strateghi del Pd e dei 5S. L’antidoto dovrebbe essere la presentazione di emendamenti che prefigurino nel dettaglio una riforma alternativa, centrata sulla sfiducia costruttiva, forse con il potere di nomina e revoca dei ministri.
Il Pd è deciso a procedere su questa strada, il M5S pure ma nonostante i temi siano gli stessi non è affatto detto che riescano, soprattutto prima delle europee, a presentare emendamenti comuni, prefigurando così un fronte referendario dal quale dovrebbe derivare lo schieramento nelle prossime elezioni.