Il governo della premier

Il caso Giambruno non preoccupa, l’incubo della Meloni è il governo tecnico

Anche il governo dei “patrioti” si inscrive nello schema classico della Seconda Repubblica che vede arrivare a un certo punto i tecnici per rimediare alle tante falle aperte da compagini che puntano tutto sul consenso e vendono all’elettorato promesse irrealizzabili

Editoriali - di Michele Prospero

28 Ottobre 2023 alle 11:00

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Il caso Giambruno non preoccupa, l’incubo della Meloni è il governo tecnico

A tormentare Giorgia Meloni non sono i fuorionda – la battuta più urticante di Giambruno dietro le quinte, all’insegna di una ideologia familiare condivisa, è quella sull’Agenzia delle entrate come male assoluto. Più che le immagini rubate, a sfuggire a ogni controllo sono le politiche pubbliche sinora adottate. I veri fantasmi che agitano la destra al potere ormai da un anno sono quelli collegati allo spauracchio del governo tecnico. Non a caso, la stessa Meloni ha recentemente menzionato lo spettro di un podestà forestiero, quasi per evocare il vero nemico, guardarlo bene in faccia e scacciarlo come un incubo fastidioso.

Nella Seconda Repubblica, che non ha mai visto una coalizione vincere per due volte di fila le elezioni, sono già apparsi quattro esecutivi a guida tecnica. Un record poco invidiabile nel laboratorio europeo. La Banca d’Italia e il Quirinale hanno diretto le grandi operazioni in fasi di allarme finanziario o anche al cospetto di un acclarato logoramento delle consuete formule politiche. Chi riconduce la potenza della soluzione tecnocratica all’ingerenza smodata del Colle, che così intenderebbe ampliare a dismisura l’influenza personale del capo dello Stato, sbaglia analisi. Se tre diversi presidenti hanno coinvolto un uomo di via Nazionale o della Bocconi per gestire un quadro di emergenza, ciò significa che dietro la decisione estrema c’è qualcosa di più intrigante di una semplice torsione presidenzialistica che periodicamente seduce l’inquilino del Quirinale.

In una democrazia che all’inizio degli anni 90 aveva assistito all’uccisione cruenta dei partiti, ha fatto la sua comparsa un lungo momento populista. L’ingrediente costitutivo e la invariante del ciclo che da allora si è aperto sono rappresentati dall’assenza di politiche costose in termini di favore o assenso dei cittadini: nell’età delle narrazioni sul maggioritario quale formula indispensabile per creare certe e stabili maggioranze, evaporano, e sono allontanate con disprezzo da tutti i protagonisti sulla scena, le ricette che comportano un “costo” sul piano degli indici di gradimento.

E però i vincoli europei divenuti obbligatori per legge e disposizione costituzionale, così come le risposte degli investitori internazionali alle misure di spesa che fanno impazzire i conti pubblici non possono essere messi in sordina per periodi troppo lunghi. Il debito, la traiettoria delle finanze statali obbligano il sistema politico a gestire in maniera creativa – soprattutto attraverso la costruzione propagandistica dell’immaginario securitario – una sfasatura esorbitante tra le promesse elettorali e la disponibilità di risorse. In condizioni normali, il divario tra aspettative e realizzazioni concrete favorisce il ricambio di governo. Nei frangenti più delicati, invece, impone l’entrata in campo del Quirinale con poteri di intervento suppletivi, che peraltro tutti i soggetti politici concedono volentieri perché le leggi di bilancio ispirate alla severità restringono le fonti del consenso.

La “spoliticizzazione” delle politiche socialmente più difficili implica che l’esecutivo venga appaltato ai tecnici i quali, forti delle manovre asettiche del “pilota automatico”, non dovranno vedersela con le urne, come invece tocca fare ai partiti. La cessione di sovranità ai competenti diventa così una pratica speculare alla grammatica scanzonata del populismo, che cerca di inventare innumerevoli vie di fuga rispetto al duro principio di realtà. Il problema, eluso da tutti gli schieramenti sul terreno, è il fallimento del modello economico abbozzato dai costruttori della repubblica cosiddetta post-partitocratica.

Trent’anni di stagnazione improduttiva, di sostanziale diminuzione quantitativa della ricchezza, di contrazione degli investimenti nei settori più innovativi sono, al tempo stesso, la causa delle ribellioni di tipo antipolitico e l’effetto della trasfigurazione demagogica delle agende di governo. La sospensione tecnica delle ostilità tra le forze politiche è il rimedio escogitato per gestire, secondo un’ottica strutturale divenuta ineludibile, pena il completo collasso finanziario dello Stato, gli interessi basilari della riproduzione dell’assetto capitalistico che si è inceppato. L’intervento emergenziale tampona le falle più evidenti del meccanismo economico-finanziario, imponendo anche elevati costi sociali per la ripresa, ma non ha il sostegno né la capacità politica per ridefinire una macchina produttiva efficace dopo i guasti provocati dalla unilaterale demolizione dell’economia mista.

La Seconda Repubblica si consolida, con la sconfitta della classe operaia e il drastico ridimensionamento della grande impresa (pubblica e privata), come lo spensierato regno del nano-capitalismo dei territori. Un vasto universo di micro-imprese, di lavoro autonomo, di attività legate al piccolo commercio è in grado di allestire alleanze politico-elettorali maggioritarie, ma poi, per via delle peculiari manifestazioni del populismo di governo (costante ricorso ai bonus, tolleranza verso elusione ed evasione fiscale, denuncia delle tasse come “pizzo di Stato”, giochino della riduzione delle aliquote per le partite Iva, protezione corporativa di alcune categorie), mette periodicamente in ginocchio i fondamentali di bilancio del Paese.

Meloni trema perché, dopo appena 12 mesi di comando dei “patrioti”, lo Stivale è precipitato nelle condizioni catastrofiche verso cui le politiche populiste sempre lo sospingono: cresce meno di tutte le economie dell’eurozona, paga a cifre più elevate di tutti gli altri Stati i titoli del debito pubblico, vede le già basse retribuzioni mangiate dall’alta inflazione. La destra domina nel voto poiché esiste una fetta rilevante della popolazione che è padrona dei propri prezzi relativi e quindi non è colpita, come invece accade per chi vive di solo salario, dalla impennata inflazionistica. Il “carrello tricolore” ideato dal presidente del Consiglio, oppure qualche sconto o elargizione una tantum, non restituiscono certo dignità e valore agli stipendi che hanno perso oltre il 20% del loro potere d’acquisto nell’anno passato.

L’invenzione dei bonus, che tutti i partiti, al pari del sindacato, condividono come un toccasana, punta a tenere mansueti anche i salariati, i cui aumenti in busta paga vengono così sganciati dalla contrattazione, cioè messi al riparo dal maledetto conflitto (che è però anch’esso un fattore di innovazione tecnologica e di prodotto), e accollati alla fiscalità generale. La fine dell’antagonismo sociale, l’abbassamento del carico fiscale, la erogazione di occasionali benefici indipendenti dalla crescita, e quindi connessi alla dilatazione del debito pubblico, tracciano il circolo vizioso della stagione populista.

La durevole spirale di decrescita, nella lievitazione delle esclusioni sociali e nel deserto dei beni pubblici, crea serbatoi di rabbia; e la destra, per cementare il suo blocco elettorale, riproduce staticamente la situazione stagnante che certamente accompagna al dissesto economico, ma non nuoce alla sua base sociale di riferimento, la quale ha almeno la facoltà di regolare i propri tariffari. In Inghilterra la premier che ha attuato lo schema dei sogni della destra nostrana – taglio delle tasse ai ricchi finanziato a debito – è stata sopportata per soli 45 giorni: il Parlamento, i mercati, e il suo stesso partito l’hanno subito defenestrata. In Italia il controllo dei partiti non si verifica, i governi forzano le compatibilità di bilancio e attendono che la sorveglianza di Bruxelles allenti la presa del rigore o che, comunque, in caso di incendio oramai divampato, siano le sentinelle del vincolo esterno ad imporre agli attori domestici recalcitranti la cura divenuta ineluttabile.

Meloni viaggia in lungo e in largo per il mondo, quasi per inebriarsi nei sentieri liquidi della fantasia e sfuggire al solido destino che, come in una oscillazione pendolare, aspetta ogni esecutivo populista: gli indicatori economici pericolanti, le anguste politiche clientelari, l’allargamento scriteriato del deficit fanno esplodere le esigenze di sistema e sollecitano, nel modo più celere, le incombenze urgenti di risanamento affidate a governi anomali che vengono concordati tra il Quirinale e le più autorevoli cancellerie europee.

Il tecnico per un po’ aggiusta le cose, senza però invertire davvero le condizioni generali (palese è al riguardo la parabola di Draghi, il quale non è andato oltre gli ordinari compiti di ragioneria e contabilità); tuttavia, dato che i contraccolpi della crisi e la stretta della cinghia ricadono sul lavoro, sulle pensioni, sui ceti popolari, alla parentesi della “neutralizzazione” segue sempre il grido sovranista raccolto dal nuovo leader tribunesco in agguato. E così ricomincia inesorabile il moto del pendolo, perennemente oscillante tra l’ubriacatura populista e il rigorismo tecnocratico nell’infinita transizione italiana.

28 Ottobre 2023

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