L'anno nero della nazione
Il primo anno (indecente) da premier di Giorgia Meloni: tra sceneggiate, claque e smorfie
Dall’Emilia a Caivano il copione è sempre lo stesso, indecente: a parte i selfie coi potenti non ha fatto nulla, se non alludere con metafore dal sapore bellico, alle maniere forti proprie di uno Stato di polizia che pulisce, elimina, reprime
Editoriali - di Michele Prospero
Non solo a Cernobbio monta il disincanto. Cala nei sondaggi la fiducia nel governo, dopo i quasi dodici mesi di attività, e Meloni perde ben tre punti percentuali nel gradimento. Non bastano le trasvolate in ogni parte del mondo a mostrare una “fuoriclasse”, secondo la definizione di Repubblica, alle prese con vestiti griffati, scarpe cangianti e capelli al vento. Anche nell’età in cui il reale pare dissolversi nell’ambiguità delle seriali post-verità e nelle incursioni degli influencer, non è scomparsa irreparabilmente la capacità degli elettori di percepire se le decisioni politiche siano efficaci o meno.
A Caivano il presidente Meloni ha sentenziato che lo Stato lì non esiste. Dinanzi al territorio napoletano sfregiato dal vuoto di potere, tocca a lei “metterci la faccia”. E per questo la patriota dona il suo viso alle telecamere, che la riprendono in ogni passerella che volentieri si concede nei luoghi del dolore. Molta rappresentazione e poca capacità di incidere sulle situazioni effettive di disagio si convertono però, alla fine, in un cortocircuito della comunicazione. Quelle doti da statista, che aveva certificato anche Panebianco (“una leader indubbiamente capace e carismatica”), non appaiono confermate dalla scialba prova di governo.
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La crescita non c’è, l’economia ristagna e perciò la cronaca nera funge da occasione salvifica. Giorgia afferra una emergenza dopo l’altra e, attraverso le sue fugaci uscite, sparge proclami con inflessione romanesca rivolgendosi direttamente al pubblico, senza neppure il rumore di fondo delle domande dei cronisti. Dopo aver citato la stessa banale frase, attribuendola una volta ad Agostino d’Ippona e l’altra a Francesco d’Assisi, il volto del potere si dilegua e un’altra tappa lo attende nella continua fuga dal concreto. Questo Stato volatile, interessato solo alla collezione delle foto di rito con i grandi della Terra, riassume la sostanza dell’esperienza di un anno nero a Palazzo Chigi.
Che si tratti del limo di Forlì o del degrado urbano di Caivano, architettura e scenografia dell’evento non cambiano di una virgola. Il telefilm governativo prevede la comparsata di un automobilista con i social intasati dalle immagini di Mussolini – scherzo del destino! – che, rimasto impantanato tra le acque melmose, incontra Giorgia e la venera come la reincarnazione dello Stato. In Campania il copione contempla una folla di militanti di partito travestiti da “persone qualunque” che passeggiano accidentalmente sul posto. La gente, appena vede la donna forte che si materializza con lo scettro del comando, si scioglie in manifestazioni spontanee di giubilo.
La costruzione di uno spettacolo politico attorno alle gesta del capo, che si sposta ovunque tra i battimani della claque al seguito, non è certo una invenzione di Meloni. Anche Napoleone III, il piccolo commediante salito al potere benché privo di attitudini di governo, aveva colpito Marx per il fatto di aver innalzato il viaggio a fabbrica del consenso. In ogni città che visitava, il capetto avvertiva negli applausi scroscianti un tangibile sostegno popolare. Spiegava Marx che la “virtù magica del suo nome” non era sufficiente, cosicché il carisma aveva bisogno di arruolare nelle piazze taluni passanti i quali, “in qualità di claqueurs”, dovevano gridare evviva e “simulare l’entusiasmo”; e però, “nonostante tutte le manovre, questi viaggi erano molto lontani dall’essere marce trionfali”.
Lo stesso fiasco comunicativo accompagna le peregrinazioni di Meloni. Le disposizioni minuziose impartite per far sembrare senza trucchi le acclamazioni, che si levano ogni volta alla visione della donna della previdenza, si rivelano delle maldestre messinscene che smontano i piani della narrazione. A Caivano il presidente del Consiglio, oltre a recitare, ha pronunciato comunque una parola politicamente evocativa: “bonifica”. Altre volte aveva invocato i blocchi navali. Allude, con metafore dal sapore bellico, alle maniere forti proprie di uno Stato di polizia che pulisce, elimina, reprime.
Il malessere collettivo può però essere affrontato in due modalità. Lo ha chiarito Leopardi con un paragone illuminante tra Napoleone il grande (“il suo governo, contuttoché dispotico, perciò appunto conservava una vita interna, che non si trova mai ne’ governi dispotici, e non sempre nelle repubbliche”) e il Papa. In una pagina dello Zibaldone, egli precisa: “Bonaparte per isnidare i malandrini da una contrada di Parigi v’introdusse i giullari e i giocolieri per richiamarvi il popolo, e frequentarla. Il Papa alcuni mesi addietro per isnidare i malviventi da Sonnino, luogo di loro rifugio nei confini del suo stato verso Napoli, decretò la distruzione di quel paese” (Zib., 251).
Con il progetto “bonificatore” l’esecutivo sovranista si mette sulle orme del papa-re che ordinò l’abbattimento degli ambienti più malfamati, e sceglie la via della repressione lasciando del tutto irrisolte le cause sociali e culturali del crimine, del male di vivere. Eppure molto più istruttiva fu la creatività sperimentata dal governo civile di Napoleone I che, attraverso politiche dell’effimero proto-nicoliniane, varò soluzioni utili per restituire vitalità agli spazi dell’abbandono.
La realtà è troppo complessa per essere governata da un ceto politico reclutato tra i sodali tolkieniani di Colle Oppio allevati nel mito della bonifica (quella vera dell’Agro Pontino) e della battaglia del grano. Tra il cognato attore non protagonista, che ai fornelli fa lo spot pubblicitario per persuadere i consumatori a servire i granchi blu a tavola, e Giorgia, che da attrice principale (già consacrata, peraltro, nel video da Oscar girato in una pompa di benzina) registra lo sketch della donna di Stato con la campanella che lavora anche il primo maggio, allestisce la cornice della macchina nel fango dell’Emilia-Romagna, o ancora si finge genuinamente sorpresa dinanzi a gruppi organizzati di plaudenti, a Palazzo Chigi la politica tramonta e si susseguono le prove di un cine-panettone.