L'intervista al talento

Matteo Mancuso, l’enfant prodige della chitarra che ha sconvolto il mondo: “La tecnica è un mezzo non un fine”

Celebrato da chitarristi del calibro di Al Di Meola e Steve Vai, ha uno stile personalissimo e ha già tenuto concerti e masterclass in mezzo mondo. "Quando dico che sono stato bocciato al liceo musicale la gente resta sconvolta". Figlio d'arte, ha appena pubblicato il suo primo album, "The Journey"

Cultura - di Antonio Lamorte

25 Ottobre 2023 alle 16:09 - Ultimo agg. 26 Ottobre 2023 alle 17:03

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Matteo Mancuso, l’enfant prodige della chitarra che ha sconvolto il mondo: “La tecnica è un mezzo non un fine”

Prima di sapere cosa fosse un plettro aveva già cominciato a sviluppare uno stile tutto suo personale. E neanche se n’era accorto. Prima di pubblicare un primo album di musica sua e inedita era già considerato un enfant prodige della chitarra a livello mondiale. E questo l’aveva saputo subito perché Al Di Meola aveva detto che “ci vorrebbero due o tre vite per imparare anche per uno come me a improvvisare così bene alla chitarra” mentre per Steve Vai “l’evoluzione [della chitarra] è al sicuro nelle mani di questo tipo di musicisti … rappresentano un nuovo livello per il tono, la precisione del tocco e la scelta delle note”. Parecchio prima di quando ha cominciato a portare in giro in concerto il suo The Journey, Matteo Mancuso si è dovuto abituare a incensi e allori e a definizioni da golden boy, prodigio, virtuoso, nuovo guitar hero.

Ci aggiungiamo anche quella di figlio d’arte: il padre Vincenzo Mancuso, chitarrista e produttore, naviga da anni nell’ambiente della musica d’autore italiana, ha collaborato e suonato con l’orchestra della Rai e con quella del Festival di Sanremo, con Francesco De Gregori e Renato Zero, Domenico Modugno e Anna Oxa, con Nada e Rino Gaetano, Loredana Bertè e Carmen Consoli. È lui stesso il produttore dell’album di inediti pubblicato lo scorso luglio (Mascot Label Group/The Players Club) dal figlio che però parla tutta altra lingua. Si sentono influenze arabe, flamenco e samba, trame blues e prog, ovviamente jazz tra i crossroads di The Journey, un viaggio eclettico.

Matteo Mancuso, classe 1996, è veloce, ha tocco pulito e preciso, trame non telefonate. Ha già suonato e tenuto masterclass in mezzo mondo, nel 2017 ha fondato il trio SNIPS. Ha vinto una borsa di studio per il Berklee College of Music di Boston, è stato ospite di Stefano Bollani nella trasmissione “Via dei Matti n.0” su Rai3. Il suo stile è oggetto di osservazione dalle migliaia di appassionati e musicisti che spulciano i suoi video su Youtube. Dicono tutti: fenomeno. E lui che si diverte comunque a suonare la chitarra da spiaggia, con gli amici. “Mi imbarazza un po’, però ci provo, mi diverto sempre molto”. Forse non c’è mai stato un italiano così seguito a livello mondiale nella chitarra elettrica. Anche Jack Black, l’attore che aveva partorito quel piccolo cult che è stato School of Rock, lo segue sui social.

Ha visto la  nuova classifica dei migliori chitarristi di tutti i tempi secondo Rolling Stone?

Non tutta, ma Jimi Hendrix non può che essere al primo posto. La storia della chitarra si divide in prima e dopo Hendrix. Sicuramente è stato quello che ha portato più innovazioni nel minor tempo possibile, ha avuto una carriera abbastanza breve. Chissà cosa ci siamo persi. È stato la prima vera e propria influenza per me.

Altri?

Ho ascoltato così tanti chitarristi … sicuramente ne dimenticherei qualcuno. Tra quelli che mi hanno influenzato nell’ambito jazz-fusion ci sono Scott Henderson, Alan Holdsworth, Frank Gambale, Eric Johnson, Robben Ford, nell’ambito più jazzistico ci sono sicuramente George Benson, Pat Metheny, Wes Montgomery. Negli ultimi tempi ho cominciato ad ascoltare pezzi dove la chitarra non è sempre protagonista.

Lo scorso maggio ha pubblicato il suo primo album di inediti, The Journey, un viaggio tra generi e influenze. 

Sarebbe stato molto difficile fare un album improntato su un solo stile, ho ascoltato così tanta roba che mi avrebbe rappresentato solo in parte. L’idea di partenza era fare un album che non fosse associato a un solo stile. Ci ho messo quasi quattro anni, non perché c’è stato molto lavoro da fare, semplicemente perché sono pigro. I tempi sono stati biblici, onestamente avrei potuto farlo in tre mesi ma ho voluto finire gli studi al conservatorio, triennio in chitarra jazz.

 

 

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Quando è cominciato tutto, qual è il suo primo ricordo della chitarra?

Dovevo avere dieci anni, o forse anche meno. Nella mia famiglia suonano tutti. Mio padre ha lavorato con un sacco di persone soprattutto qui in Italia. Mi ha influenzato non perché mi abbia messo la chitarra in mano ma perché mi ha fatto ascoltare in maniera anche passiva tantissima musica. Il primo pezzo che ho imparato è stato Apache dei The Shadows perché me lo ha insegnato lui. E al contrario di quanto molti pensano ho iniziato con l’elettrica e non con la classica.

E quindi è così che è nato il suo stile?

Sì, vedevo mio padre che suonava con la classica e semplicemente pensavo che ogni chitarra andasse suonata in quel modo, con le dita. Soltanto dopo ho scoperto l’esistenza del plettro e per pigrizia non ho voluto imparare. Mio padre non mi ha mai corretto. Le prime influenze sono state Deep Purple, Led Zeppelin, AC/DC tantissimo, tanto rock and roll, e a 14 anni ho cominciato a studiare anche chitarra classica, cosa che mi ha aiutato molto ad approfondire la mia tecnica. La chitarra era più un passatempo, uno sfogo. Non è mai stata un obbligo.

Deve aver studiato comunque molto.

Non ho la soglia dell’attenzione abbastanza alta per quel tipo di studio accademico. Se mi fossi approcciato in quel modo sono sicuro che avrei lasciato. Ho sempre suonato sui dischi, ho tanto cazzeggiato con lo strumento, che può sembrare una perdita di tempo ma invece mi è servito tantissimo. Quando ero adolescente suonavo anche otto nove ore al giorno, non facevo altro. E infatti al secondo anno di liceo musicale sono stato bocciato.

E i suoi insegnanti sanno che cosa ha combinato nel frattempo?

Ma in realtà hanno fatto bene! Da quel momento in poi mi sono dato una sistemata e le cose sono migliorate. Ci è voluta la bocciatura. Quando ne parlo alle masterclass gli studenti restano sconvolti.

Non è un pericolo essere così tecnici, non è pericoloso per l’originalità?

L’originalità è una cosa che non si impara. Ognuno ha la propria voce, nessuno te la toglie ma non si impara. Avere più o meno tecnica ti permette di raccontare nella maniera migliore.

Come dire che non è il fine ma il mezzo.

Sì. È vero però che più cose sai fare più è facile perdere di vista l’obiettivo. Perciò per me è stato difficile lavorare all’album all’inizio, avevo troppe cose nella testa. Non devi usare necessariamente tutto quello che sai, tutto quello che conosci, altrimenti viene fuori una porcheria.

Sarebbe disposto a scrivere canzoni?

Non ne sarei in grado. Ho sempre ascoltato molta musica strumentale e poche canzoni, conosco pochissima musica italiana e quasi zero cantautorato. Soltanto De Gregori, qualche pezzo di Dalla, basta. Non ho la cultura della canzone, mio padre è nato in quel mondo e di conseguenza ha un approccio molto più pop. Perciò non gli piacciono la maggior parte delle mie cose e mi dice sempre di scrivere le canzoni perché è lì che si fanno i soldi. Abbiamo punti di vista molto diversi.

Farebbe il turnista?

Sì anche se al momento non so se ho le carte in regola per farlo. Servono competenze diverse rispetto al lavoro da solista. Serve la chitarra giusta per il brano giusto, devi saper leggere bene e io non sono un grande lettore. È un lavoro che si impara più con l’esperienza che con lo studio. L’unica mia esperienza da turnista è stata con la PFM l’anno scorso in una data in sostituzione a Marco Sfogli. Non sono mai stato in un contesto dove la chitarra resta sullo sfondo, in cui non è lo strumento principale.

Che idea si è fatto dei Maneskin?

Non li ascolto tanto. Certo non li vedo come una novità stilistica quanto più come una ripresa di certi stilemi. Sicuramente meglio della trap. È un progetto musicale che ha un po’ di identità, la voce di Damiano la riconosci subito per esempio e questo fa il sound di una band. Sicuramente è positivo per il mondo della chitarra.

Cos’è per lei la chitarra?

Un attrezzo per esprimere me stesso. Prima era una valvola di sfogo. Lo è tutt’ora in realtà ma è anche semplicemente un mezzo per fare musica. Io dico sempre che un musicista bravo deve essere prima di tutto un musicista e poi un chitarrista.

 

 

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25 Ottobre 2023

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