La guerra in Medioriente

Intervista a Lucio Caracciolo: “Israele non ha capito che non si possono tenere in gabbia due milioni di persone”

«Ha pensato che bastasse dar loro lo stretto necessario per vivere senza rompere troppo. Ma il meccanismo è saltato. La questione è capire cosa sia successo il 7 ottobre. Di certo Israele è in una crisi profonda. Se entra a Gaza poi come ne esce...?»

Interviste - di Umberto De Giovannangeli

24 Ottobre 2023 alle 12:30

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Intervista a Lucio Caracciolo: “Israele non ha capito che non si possono tenere in gabbia due milioni di persone”

La guerra di Gaza. L’Unità ne discute con Lucio Caracciolo, direttore di Limes, la più autorevole rivista italiana di geopolitica.

Il 7 ottobre 2023, l’ “11 Settembre d’Israele”, rappresenta davvero uno spartiacque definitivo tra un prima e il dopo per il conflitto israelo-palestinese e il Medio Oriente?
Direi di sì. Ricordiamo il primo spartiacque che è stato il 2005, cioè la cessione della Striscia di Gaza da parte di Sharon ai palestinesi pensando che sarebbe stata l’Autorità nazionale palestinese a governare, d’accordo con Israele, Gaza. In questa ottica, e con tali propositi, sarebbe stato anche un modo per dire al mondo: vedete Israele sa anche aprire ai palestinesi. In realtà davano indietro un qualcosa di ingestibile, come sapeva bene l’Egitto quando, nei colloqui con Begin che portarono alla pace di Camp David tra Israele ed Egitto, Sadat si guardò bene di accollarsi la Striscia di Gaza e i suoi abitanti. Il disegno d’Israele era chiaro da tempo: restituiamo Gaza e nel frattempo congeliamo a tempo indeterminato la questione palestinese, continuiamo a costruire insediamento, anneghiamo nei soldi l’Anp così la teniamo buona, e il problema era risolto…

Invece, professor Caracciolo?
Quello che forse non avevano ben colto era anzitutto che tu non puoi tenere a tempo indeterminato una popolazione in gabbia. Oltre due milioni di persone strette in uno spazio angusto, in quelle condizioni, indipendentemente da qualsiasi credo politico, religioso, ideologico, alla fine quel progetto di contenimento non funziona. Salta. Esplode. In secondo luogo Israele si è troppo affidata alla cosiddetta “manutenzione”….

Vale a dire?
In parole povere, diamo loro lo stretto necessario per sopravvivere senza rompere troppo. Se, come è successo, la rabbia tracima, battono cassa e tirano un po’ di missili, gli mandiamo giù l’ira di dio senza entrare a Gaza e in una settimana o due la questione si risolve. Tutto questo è durato dal 2005-2006 fino al 7 ottobre scorso. La questione vera è capire perché il 7 ottobre è successo quel che è successo.

Quali spiegazioni sono possibili?
Una spiegazione terra-terra, ma con elementi di verità, è che a un certo punto a forza di tirare il meccanismo non funziona più. Seconda lettura, è che qualche meccanismo interno ad Hamas ed esterno – l’Iran o qualche altro attore – ha deciso che bisognava dare un segnale, fra gli altri, a Israeliani e Sauditi che non si avvicinassero troppo e non formalizzassero, perché di questo si tratta e niente di più, una intesa sotterranea, che tutti sanno esistere già da un bel po’ di tempo, tra Israele e il Regno saudita, isolando di più l’Iran.

Quanto c’è dei mesi tumultuosi, di rivolta interna che ha spaccato in due il Paese, alla base, o comunque come elemento non secondario, della clamorosa dèbacle del 7 ottobre?
È una domanda più che giusta che però presuppone il fatto che in realtà, al di là delle divisioni interne ad Hamas, tra quelli che volevano far fuori Israele e quelli che volevano contrattare una sorta di convivenza belligerante ma senza farsi del male in modo definitivo, se pensi che il tuo nemico, Israele, sia entrato in una crisi definitiva, allora probabilmente ad avere la meglio è la fazione che dice: ora o mai più, proviamo a far fuori Israele, o meglio aiutiamo Israele a farsi fuori, perché non è che Hamas può battere Israele, ma Israele può battere Israele. A quel punto qualcuno, interno ed esterno, potrebbe essersi ingolosito e aver pensato che attirando Israele nella trappola di Gaza, alla fine i palestinesi avrebbero messo in crisi Israele. Israele è in una crisi molto seria, lo vediamo da molti segnali anche sul fronte delle forze armate e dell’intelligence. Ricordiamo l’atteggiamento di molti capi militari, e non parliamo di quelli dell’intelligence, durante i mesi, che non sono mai finiti, di contestazione a Netanyahu, anche il fatto che molti riservisti non si sono presentati. Dopo il 7 ottobre c’è stato un adunarsi attorno alla bandiera che però non ha certamente suturato queste ferite. Non dimentichiamo che coloro che in questo momento comandano la guerra contro Hamas in Israele, sono signori che sanno che nel 99% dei casi andranno in pensione il giorno dopo. E questo non aiuta molto nella battaglia.

Sul terreno la situazione evolve di ora in ora. L’invasione di Gaza sembra questione di giorni se non di ore. Qual è la strategia militare d’ Israele?
Una guerra a tre fasi. La prima, in atto dall’8 Ottobre, è spianare con i bombardamenti aerei la Striscia. Più o meno il 35-40% degli edifici di Gaza sono già stati colpiti, ci si augura anche qualche infrastruttura di Hamas. La seconda fase, prevede incursioni, accompagnate da una battaglia in tutte le dimensioni: cyber, spazio, mare.. Gli israeliani entreranno per forza a Gaza, ma non sarà un’operazione di massa. Sarà un’operazione mirata, almeno nelle intenzioni. Mirata, ad esempio, a distruggere i missili, che in prospettiva rappresentano il problema principale per Israele. Arrestare o eliminare alcuni dei capetti, perché i capi che contano se ne sono già andati, di Hamas. Si faranno operazioni di commando rafforzato. Però uno parte con queste idee, ma poi dipenderà da come reagiranno gli altri. Questo sul fronte di Gaza. Ma non va dimenticato che esiste anche il fronte nord, Hezbollah, e anche la Cisgiordania. E poi c’è terza fase, tutt’altro che chiara…

In che senso?
Una volta chi si è entrati, come se ne esce? Gli israeliani sostengono che una volta ripulita Gaza non vogliono più averci a che fare. Il problema, e che problema, è rappresentato da oltre 2 milioni di persone che non possono sparire nel nulla, anche se magari qualcuno può pensare o sperare, che possano finire in Egitto o in Giordania. Tra l’altro l’Egitto e la Giordania sono molto preoccupati dalla possibilità di una “invasione” pacifica di profughi da Gaza e dalla Cisgiordania.

Nel fragore dei combattimenti, la diplomazia internazionale riscopre d’incanto la soluzione “a due Stati”. Ma non è troppo tardi?
Questo riscoprire, in qualche caso sincero, in qualche caso disperato, in qualche altro una presa in giro, è semplicemente la riprova che non c’è la soluzione, sennò l’avremmo già trovata. La questione palestinese può essere gestita ma non può essere risolta. Il problema è che abbiamo portato la gestione, fatta secondo me molto male, al limite del gestibile, e adesso le forze estreme, sia in campo palestinese, che però vale quello che vale cioè molto poco, sia in campo israeliano, che vale invece quasi tutto, ne approfittano per tentare l’impossibile. Da parte israeliana, le ultra destre, i coloni e coloro che li supportano nel governo, sono convinti che sia una buona occasione per chiudere definitivamente la partita con i palestinesi e magari per creare finalmente quel confine orientale d’Israele, che poi sarebbe la Valle del Giordano, e quindi formalizzare un dato di fatto. In campo palestinese non abbiamo riscontri elettorali, perché lì elezioni non si fanno da molto tempo. La mia sensazione è che, almeno in Cisgiordania ma forse un po’ anche a Gaza, una buona parte dei palestinesi, avendo capito che un loro Stato non l’avranno mai, preferirebbero diventare cittadini israeliani con tutti i vantaggi e i diritti che malgrado tutto hanno gli arabi israeliani. Ma questa è una non soluzione perché è evidente che l’”Israstina”, come la chiamava Gheddafi, non piace neanche un po’ allo Stato ebraico.

Il 7 ottobre segna anche la fine di ciò che restava dell’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen?
No, perché era già morta. Ed è tenuta in vita, in maniera assolutamente artificiale dai soldi nostri, europei, americani, israeliani. Con qualche successo, va detto, perché la vita in Cisgiordania, pur con tutte le persecuzioni, i maltrattamenti e anche le uccisioni, è incomparabilmente migliore a quello che è la vita dei palestinesi a Gaza, lo è sempre stato e lo sarà sempre di più.

La narrazione per cui Hamas è il burattino del “burattinaio” iraniano, che agisce a comando, non è semplicistica?
Certamente lo è. Ha il vantaggio, proprio perché semplicistica, di essere attraente. Le cose sono molto più complicate. In Medio Oriente la realtà non corrisponde mai all’apparenza. Credo che ci siano dei livelli di intese sotterranee, finanziate soprattutto dai paesi del Golfo e in parte anche da altri, tra le forze palestinesi che vanno tenute buone, “addomesticate”, e gli israeliani che devono essere calmati nelle loro intenzioni definitive, sostanzialmente avere la Terrasanta completamente libera da palestinesi. Tutto questo è entrato in crisi ed è quello che mi preoccupa. Io francamente non vedo un’alternativa alla ricostruzione di un tessuto in cui tutti gli attori, le grandi potenze, a cominciare dagli Stati Uniti, globali e regionali, debbano trovare, magari facendosi la faccia feroce, un equilibrio che permetta di ripristinare una qualche forma di convivenza, passando però, questa volta, per una guerra che sarà sanguinosa, lo è già, che darà a questa ipotetica convivenza un volto diverso.

A settembre si è celebrato il trentennale degli Accordi di Oslo-Washington. Con gli occhi dell’oggi, era un fallimento annunciato?
No, perché ognuno intendeva qualcos’altro mentre firmava quegli accordi. Ma alla fine, che fossero Israeliani o Palestinesi, convergevano nella convinzione che una soluzione definitiva e accettabile per entrambe le parti, non fosse possibile. Mentre era non solo accettabile ma necessaria una qualche forma di intesa che permettesse di disinnescare la bomba, magari ottenere anche un bel po’ di quattrini e continuare poi a negoziare a tempo indeterminato qualcosa che non può essere negoziato, cioè la pace tra i due Stati.

Limes nel corso degli anni ha dedicato moltissimi volumi al Medio Oriente e al conflitto israelo-palestinese. Da quella ricostruzione analitica, il fallimento dell’oggi era già nelle carte?
No, perché si possono indovinare alcune tendenze di fondo, che peraltro sono talmente visibili che le abbiamo indovinate pure noi, ma il punto è che poi ci sono sempre degli scarti, degli imprevisti. Il 7 Ottobre è un esempio tragicamente clamoroso che non tutto ciò che è razionale è reale e viceversa. Aggiungerei che siccome siamo gente cocciuta, stiamo lavorando ad un altro numero su Israele che uscirà l’8 Novembre.

Limes ha anche raccontato l’esistenza di una società civile, sia in campo israeliano che in quello palestinese, che ancora crede nel dialogo e non si è piegata all’ineluttabilità delle guerre.
Il problema è che gli accordi non li fanno le società ma gli stati. E poi c’è la società civile ma c’è anche la società sempre più incivile.

24 Ottobre 2023

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