La guerra in Medioriente
Intervista a Luisa Morgantini: “Stop ai bombardamenti e all’apartheid a Gaza”
«La presa del potere da parte di Hamas è anche responsabilità dell’inazione dell’Ue e della comunità internazionale che ha permesso a Israele di violare i diritti dei palestinesi. Uno stato? Due stati? Ciò che conta è il diritto a essere liberi»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Se c’è una persona che conosce la realtà di Gaza, i territori palestinesi occupati, meglio delle proprie tasche, questa persona è Luisa Morgantini. Già Vicepresidente del Parlamento Europeo con l’incarico delle politiche europee per l’Africa e i diritti umani. E’ tra le fondatrici della rete internazionale delle Donne in nero contro la guerra e la violenza. Ha fondato ed è attualmente presidente dell’associazione AssoPacePalestina. Ha ricevuto il premio per la pace delle donne in nero israeliane e il premio Colombe d’Oro per la Pace di Archivio disarmo.
Israele rivendica il diritto di difesa dopo i sanguinosi attacchi del 7 ottobre. Lei che conosce come pochi altri la Striscia di Gaza, come risponde a quanti sostengono che due milioni di palestinesi sono ostaggi di Hamas?
Che due milioni di palestinesi, fin dal 2007, data della presa del potere da parte di Hamas e della tragica divisione tra le forze politiche palestinesi, sono sottoposti ad un totale assedio di Gaza da parte dello Stato d’Israele. Non che prima del 2007 i gazawi fossero liberi e felici. Nel 1948 con la fondazione dello Stato israeliano e la cacciata di più di 750.000 palestinesi, a Gaza arrivarono i profughi scacciati dalle loro case e villaggi e vennero dislocati in 8 campi, a Gaza sono più del 70% della popolazione. Fino al ’67 sotto dominio egiziano e poi con la guerra dei sei giorni è iniziata l’occupazione militare di Israele, con la repressione e la mancanza di libertà di movimento. E’ da Gaza che esplode la prima Intifada, nella seconda Intifada l’esercito israeliano divide la Striscia di Gaza in tre parti, chi abita al sud a Khan Yunis non ha più rapporti con Beit Layha al nord. Nel 2000, 24.000 persone uscivano da Gaza per lavorare in Israele, nel 2008 erano zero, vi erano 3.900 aziende con 39.000 lavoratori, nel 2007 erano 195 con 1.700 lavoratori. Israele aveva già chiuso le frontiere al commercio, le meravigliose fragole di Beit Layha, le verdure, i fiori, marcivano e il settore agricolo che occupava 40mila persone è crollato, anche la pesca grande risorsa di Gaza con Israele che chiudeva la costa sparando alle barche che superavano le tre miglia, decise da Israele, contravvenendo all’accordo di Oslo che dava 12 miglia al largo. E così si è ridotto la popolazione di Gaza a vivere con aiuti esterni. I tunnel non sono stati fatti da Hamas per importare armi, in quegli anni servivano ad importare beni che non si potevano fare entrare dai passaggi controllati da Israele.
Poi ci fu il ritiro deciso dall’allora premier Ariel Sharon.
Il governo di Sharon ritirò i coloni da Gaza, costava troppo l’esercito che doveva proteggerli e soprattutto, con il solito rovesciamento della realtà, sosteneva che Gaza non era più occupata militarmente, ma invece il controllo di Israele continuava dal mare, da terra, dal cielo.
Nel frattempo nel 2006 Hamas aveva accettato il gioco democratico, posto fine alle azioni kamikaze che uccidevano civili israeliani e immolavano giovani palestinesi, ed aveva partecipato alle elezioni vincendole, elezioni considerate da tutti gli osservatori internazionali democratiche. Molti laici votarono per Hamas, delusi dal fallimento di Oslo e dell’autorità palestinese: non libertà dall’occupazione, ma più colonie e coloni, più furto di terra, check point, la costruzione del muro, divieti di entrare a Gerusalemme che, secondo la comunità internazionale, dovrebbe essere una città condivisa, capitale di due popoli e due stati. La presa del potere da parte di Hamas a Gaza e la tragica divisione tra le forze politiche palestinesi, è frutto anche della inazione e della politica dell’Unione Europea e di tutta la comunità internazionale, che ha permesso ad Israele di violare ogni diritto dei palestinesi. La popolazione di Gaza purtroppo paga un prezzo altissimo ed è ostaggio in primo luogo dell’occupazione israeliana. Hamas controlla la popolazione, ha reintrodotto la pena di morte, non ha certamente migliorato la vita dei gazawi, ricordo che dopo i bombardamenti del 2012 e il ritiro dell’esercito israeliano, un gazawi intervistato dalla tv di Hamas alla domanda del giornalista che diceva “ci siamo riusciti, abbiamo vinto”, rispose: “un’altra vittoria come questa e saremo tutti morti. Si, i gazawi sono ostaggi di tutti, così come Hamas è ostaggio di Israele.
Cosa fare in questo drammatico momento?
Oggi chiediamo il cessate il fuoco, basta bombardamenti, ma insieme a questo dovremmo chiedere, e la comunità internazionale imporre, la fine dell’assedio di Gaza e dell’occupazione militare, un’altra tregua porterà ancora dolore e morte. Netanyahu oggi vuole distruggere Hamas, estirparlo, mentre ha sostenuto la formazione e la crescita di Hamas per indebolire la leadership di Arafat e dividere il territorio palestinese. Nel 2018, sostiene, in una riunione del Likud, “chiunque vuole ostacolare la creazione di uno Stato palestinese deve sostenere il rafforzamento di Hamas. Questo fa parte della nostra strategia: isolare i palestinesi di Gaza dai palestinesi di Giudea e Samaria”. Hamas non è l’Isis ma certamente vorrebbe uno stato islamico, che fa il paio con lo Stato d’Israele che con la legge del 2018 dichiara Israele stato degli ebrei.
Lei è sempre stata fautrice della disobbedienza civile e dell’iniziativa diretta non violenta, costruendo su questo una rete di rapporti e di iniziative che hanno visto insieme israeliani e palestinesi. E’ una via che la guerra ha reso ormai impraticabile?
Chi rende difficile la resistenza popolare nonviolenta è la continua repressione di Israele di ogni forma di resistenza. La resistenza nonviolenta teorizzata e praticata dal coordinamento dei comitati per la lotta popolare contro il muro e l’occupazione, quando Israele iniziò la costruzione del muro lungo 720 km, motivandolo con la necessità di separare i palestinesi e gli israeliani per impedire che avvenissero attentati suicidi in Israele, rivelatosi poi quello che la Corte penale dell’Aja, nella sentenza del luglio 2004 che ne decretò lo smantellamento, definì: un muro che penetra profondamente nei territori palestinesi, annettendosi territorio, sottraendo terra e acqua e che divide palestinesi da palestinesi. I comitati che sorsero in quegli anni erano composti da giovani generazioni che difendevano il loro diritto alla terra, molti villaggi come B’ilin avevano perso il 65% della terra coltivabile per far posto al muro e alla costruzione di nuove colonie, erano indipendenti dalle forze politiche, la loro strategia era l’alleanza con i giovani israeliani, ma non solo giovani, contro l’occupazione ed il muro e con noi attivisti internazionali. Insieme manifestavamo ogni venerdì nei diversi villaggi: Nabi Saleh, al Massara, nelle colline a Sud di Hebron. Le iniziative tra palestinesi e israeliani, non sono più il dialogo tra le forze politiche ma l’azione comune contro l’occupazione. A Masafer Yatta dove soldati e coloni con il governo israeliano, stanno cercando di evacuare villaggi palestinesi (un crimine di guerra, dice BetSelem, organizzazione israeliana per la difesa dei diritti umani), palestinesi, internazionali, ebrei Usa, israeliani, cercano di difendere i pastori aggrediti ogni giorno da fanatici coloni, protetti dai soldati.
Cosa dovrebbe significare per lei essere amico d’Israele?
Io non sono amica dello Stato d’Israele, è uno Stato che pratica l’apartheid e commette ogni giorno crimini e per questo dovrebbe risponderne alla Corte Penale Internazionale, ma sono molto amica di israeliani che hanno a cuore la giustizia. Chi si dice amico di Israele dovrebbe fargli capire che la politica tribale del dente per dente, distrugge tutto e tutti e che i palestinesi hanno diritto alla libertà, alla sicurezza e all’autodeterminazione come Israele. Convincano Israele che deve smetterla di occupare militarmente e praticare un sistema d’apartheid, non lo dico io, lo dicono organizzazioni come B’tselem, Human Rights Watch, Amnesty International.
Lo scorso mese si sono celebrati i trent’anni dalla firma degli accordi di Oslo-Washington. Trent’anni dopo cosa è rimasto di quella speranza e ha ancora senso parlare di una soluzione “a due Stati”?
Non mi appassiona la discussione uno Stato, due Stati, ma l’affermazione del diritto dei palestinesi all’autodeterminazione, alla libertà. Giovani palestinesi e israeliani sempre di più dichiarano di volere uguaglianza di diritti. La vergogna è della Comunità Internazionale che ha permesso ad Israele di essere impunita per una occupazione e colonizzazione che dura da decine e decine di anni. L’accordo di Oslo è diventata una trappola per il popolo palestinese.
Formalmente esiste un presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas. Ma è come se fosse scomparso, del tutto irrilevante. Hamas ha ottenuto quel che voleva, regolare definitivamente i conti nel campo palestinese?
Non credo che sia finita qui, l’Anp, dovrebbe cambiare profondamente, se ha scelto la via di non praticare la lotta armata allora sostenga davvero la resistenza popolare nonviolenta, dimostri di essere con il popolo palestinese e che lo stato che vorrebbe costruire sia democratico e laico, non rincorra Hamas mostrando di essere religioso, il che non significa non rispettare le religioni, ma mantenere la separazione tra lo Stato e la religione. C’è bisogno di un rinnovamento dell’Olp e dell’Anp. Si indicano elezioni, la Comunità internazionale dovrebbe fare pressione su Israele affinché gli abitanti palestinesi di Gerusalemme Est possano votare, si combatta contro le diseguaglianze sociali ed economiche della popolazione palestinese.
Lei è stata vice presidente del Parlamento europeo. L’Europa ha tradito il popolo palestinese?
Non amo la parola tradimento, ma considero l’Europa responsabile di questa immensa tragedia e di usare due pesi e due misure nel difendere i diritti umani. Ha sì aiutato economicamente il popolo palestinese, ma come diceva una Prima ministra al nostro commissario europeo “noi palestinesi non siamo beggar (mendicanti), abbiamo costruito mezzo Medio Oriente, grazie ai vostri aiuti economici, ma noi abbiamo bisogno della libertà di movimento, della libertà economica, abbiamo bisogno che Israele si ritiri dai territori occupati, fate la vostra parte”. L’Europa riprenda la sua dignità e sia davvero una forza che rispetta i diritti umani e li fa rispettare. Non può essere al seguito degli Stati Uniti. Cominci col adottare sanzioni verso Israele e applichi l’articolo che sospende i trattati commerciali se un paese viola i diritti umani.