Il conflitto Israele-Palestina

Intervista ad Anna Foa: “Israeliani socialisti e pacifisti lasciati da Netanyahu alla mercé di Hamas”

«Non dimentichiamo chi sono le vittime del raid nei kibbutzim. E ricordiamo cosa è Hamas alla sinistra europea e mondiale che pensa di sostenere i palestinesi, appoggiando o minimizzando quello che è successo. Le efferatezze commesse il 7 ottobre sono inenarrabili e segnano uno spartiacque»

Interviste - di Umberto De Giovannangeli

19 Ottobre 2023 alle 14:00

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Intervista ad Anna Foa: “Israeliani socialisti e pacifisti lasciati da Netanyahu alla mercé di Hamas”

Israele, Gaza. I giorni dell’orrore e dell’odio. I giorni di una guerra che non conosce limiti né codici regolatori. L’Unità ne discute con una grande intellettuale dell’ebraismo italiano: Anna Foa. La professoressa Foa ha insegnato Storia moderna all’Università di Roma La Sapienza. Tra le sue numerose pubblicazioni, ricordiamo: Gli ebrei in Italia. I primi 2000 anni; Ebrei in Europa. Dalla Peste Nera all’emancipazione XIV-XIX secolo; Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento; Portico d’Ottavia 13. Una casa del ghetto nel lungo inverno del ’43; La famiglia F.

Le notizie che giungono da 11 giorni da Israele e da Gaza raccontano di una tragedia senza fine, di migliaia di vite spezzate. Professoressa Foa, siamo ad una situazione di non ritorno nell’eterno conflitto israelo-palestinese?
E’ difficile dirlo, ancor più azzardare previsioni. Quel che so è che il 7 ottobre è uno spartiacque tra il prima e il dopo, un evento enorme che differenzia completamente la storia che sta succedendo oggi da quella precedente quel giorno che resterà impresso indelebilmente nella memoria di ogni israeliano. Tutte le carte in tavola sono cambiate. Tutto quello che su cui eravamo abituati a ragionare è cambiato. Se ne sono ben resi conto quelli che in Israele per nove mesi si sono opposti nelle piazze a Netanyahu. Sono stati i primi a rientrare nell’esercito. Non per ricompattare il Paese. Non è quello che volevano. Dicevano che di fronte ad una tragedia inenarrabile come quella del giorno di Sukkot, noi ci siamo. Ma non per ricompattarsi dietro Netanyahu, tanto è vero che Haaretz ha chiesto le sue dimissioni tre giorni dopo il 7 ottobre. Mai si è visto un Paese in guerra che chiede le dimissioni del suo premier.

Cosa significa nella psicologia di una nazione come Israele, quel 7 ottobre 2023, oltre al dolore per le tante vittime?
Ci sono molte cose. Innanzitutto siamo di fronte a qualcosa che non si era mai visto prima in Israele. Le cose che sono successe nei kibbutzim ai confini con Gaza il 7 ottobre, sono assolutamente indicibili, inenarrabili, fino al rapimento di neonati e bambini. Non si erano mai viste prime efferatezze di questo genere. E’ un cambio di percezione che investe anzitutto quella parte d’Israele che ha sempre creduto nel dialogo e in una pace giusta con i palestinesi. Che si è battuta per questo. Estremamente significativa di questo disagio è la lettera aperta dei sessanta accademici scritta alcuni giorni fa. Tra di loro c’è anche la figlia del grande storico, scomparso, Zeev Sternhell. Tra i firmatari ci sono personaggi di grande rilievo della sinistra. Gente che non si è limitata a scrivere articoli o rilasciare interviste o dichiarazioni. Hanno fatto molto di più. Stiamo parlando di persone che si sono battute per anni e anni a favore di una soluzione politica fondata sul principio “due Stati, per due Popoli”. Non dimentichiamoci chi sono questi. Come chi sono quelli che sono stati presi prigionieri nei kibbutzim. Gente che accompagnava i malati dagli ospedali di Gaza in Israele e li riportava indietro. Persone che si sono impegnate quotidianamente, che hanno fatto qualcosa di grandioso, e adesso dicono, come hanno fatto i 60 nella loro lettera, teniamo presente quello che ha fatto Hamas. Ricordiamoci cosa è Hamas e ricordiamolo anche alla sinistra europea e mondiale che pensa di sostenere i palestinesi, appoggiando o minimizzando quello che è successo. Poi c’è il ricordo della Shoah.

Vale a dire, professoressa Foa?
Un ricordo che non può non emergere in un Paese ancora pieno di sopravvissuti e di memorie. Riemerge continuamente. Lo vedi sui social, ovunque. Forse sarebbe bene parlare d’altro, guardare avanti e non indietro. Non so quanto questo ricordo sia utile in questo momento, comunque c’è, e non può non esserci. A rendere ancora più tragica la situazione, ci sono i duecento ostaggi ancora nelle mani di Hamas, con le famiglie che giustamente premono chiedendo che siano liberati. Una cosa di questo genere, di tale portata, crea un salto qualitativo. Cambia tutto. Le persone cambiano idea, le persone non sanno più cosa fare. Le città sono deserte. Un’amica che vive a Gerusalemme mi ha detto che dalla finestra non vede quasi nessuno passare.

E dei 2,2 milioni di palestinesi che vivono in quella prigione a cielo aperto, con la più alta densità di popolazione per chilometro quadrato al mondo?
Sono ben contenta che fino a questo momento, nel momento in cui parliamo, l’esercito israeliano non sia entrato a Gaza. La vicenda dell’ospedale colpito, con centinaia di morti, cambia ancor più tutte le carte in tavola in maniera disastrosa, chiunque sia stato a commettere questo atto, qualunque ne fossero state le intenzioni. Il cuore di tanti israeliani, lo hanno scritto, lo hanno detto, non può non andare a queste persone che sono rinchiuse in una prigione. Una prigione governata, voluta, imposta, da Hamas. Da un regime eguale a quello di Teheran. Un regime terrificante, dittatoriale, in cui gli oppositori vengono assassinati, in cui non c’è alcuna libertà. Fino a questa vicenda terribile dell’ospedale, che non si sa con certezza come sia andata, Israele aveva mostrato un minimo di esitazione a entrare nella Striscia di Gaza e creare una guerra disastrosa per i suoi abitanti. Non so cosa accadrà ora. Il mio cuore va anche ai palestinesi. Ho sempre pensato che ci voglia uno Stato palestinese accanto allo Stato israeliano. A me sembra straordinario che in tutto questo, Israele sia un Paese in cui si chiedano ancora le dimissioni di Netanyahu, uno dei maggiori responsabili, forse il maggiore responsabile di questa situazione. Ricordiamo, a tal proposito, lo spostamento dei reparti scelti, più preparati, dell’esercito israeliano in Cisgiordania, sguarnendo le postazioni ai confini con Gaza. Uno spostamento voluto da ministri di estrema destra, come Ben-Gvir e Smotrich, e avallato da Netanyahu, un ridispiegamento che prelude all’annessione di territori sotto l’amministrazione dell’Autorità nazionale palestinese. Una scelta politica, ideologica. Rafforzare le aree dove vivono e imperano i coloni, lasciando al proprio destino, un destino di sangue, i kibbutzim popolati da socialisti, pacifisti, nella logica perversa del tanto questi non ci votano. Lasciano i kibbutzim, cittadini israeliani, alla mercé degli assassini di Hamas.

Non è una domanda, ma una testimonianza del suo coraggio intellettuale nel mettere in guardia, anche la diaspora ebraica, sulla natura dell’attuale governo israeliano, prima dell’allargamento del gabinetto di guerra. Lei scriveva, a settembre, su Gariwo. La foresta dei Giusti: “Metà Paese è in lotta da mesi, scendendo in piazza ovunque, tutti i sabati, e nel corso di questa battaglia si va sempre più affermando il nesso tra la lotta per la democrazia e quella per i diritti, quelli dei palestinesi come quelli delle donne, degli omosessuali, dei cristiani, dei non credenti. Molti commentatori ricordano in questi giorni che a scatenare la guerra con i romani da cui è derivata la distruzione del Tempio e della Giudea sono stati gli estremisti ebrei del tempo, gli zeloti. Ora gli zeloti di oggi vogliono nuovamente distruggere Israele, ma dall’interno, trasformandola in uno Stato teocratico come l’Iran. Il modello iraniano è ormai arrivato in Israele, come già da tempo vi è arrivato l’apartheid. La battaglia coinvolge tutti, sempre di più e nessuno ne può restare fuori”. Le chiedo, quanta responsabilità c’è della comunità internazionale nell’affossamento della soluzione “a due Stati”?
La comunità internazionale, gli Stati membri, portano una pesante responsabilità, anche se la responsabilità maggiore ricade sugli esecutivi che si sono succeduti dall’avvento della destra al governo in Israele. Negli ultimi cinque anni, da quando Netanyahu ha ripreso il potere, siamo andati verso un precipitare della situazione. Nemmeno la sinistra se ne era resa conto, nemmeno con tutte le battaglie che sono state portate avanti da metà della società israeliana, nelle piazze israeliane da mesi a questa parte, fino al 7 ottobre. Non ci si è resi conto del livello di follia a cui questi fascisti, razzisti, convinti messianici, erano arrivati. Israele è in preda a dei pazzi. Ci si può augurare che ritorni un po’ di ragione. Speravo che un briciolo di ragione, in questi ultimissimi giorni, con l’esitazione d’Israele a invadere Gaza, si fosse manifestata. Ora però tutto si è rovesciato. C’è forse da sperare in Biden, anche se mi sembra che con la strage all’ospedale di Gaza, abbiano tagliato le gambe alla sua missione, chiunque sia stata.

Professoressa Foa, cosa vuol dire per lei essere “amici di Israele”? E in questo, l’Europa?
È un’affermazione, “amico d’Israele”, che non mi è mai piaciuta. Non si è amici di uno Stato. Si può avere simpatia, può piacere andar là, ma essere “amico d’Israele” non ha senso. E’ un termine che implica una considerazione molto sbagliata, a mio avviso, del rapporto con uno Stato. E’ tardi ormai. Lo è anche per l’Europa. Si dovrebbe essere molto chiari sulle responsabilità di Hamas. Non lasciare alcuno spazio a una sinistra radicale che vorrebbe sostenere che Hamas e i palestinesi sono la stessa cosa e che i palestinesi sono talmente esasperati che hanno mozzato la testa ai bambini. Questo non può essere detto e accettato in nessun modo. Dopodiché batterci in tutti i modi perché si arrivi ad una soluzione politica di quello che sta succedendo, con una Gaza priva di Hamas, in mano agli organismi internazionali, all’Onu. Sono state ventilate molte ipotesi. Io non sono una esperta in materia. Ma credo che essere vicini ad Israele in questo momento voglia dire portare il lutto per i suoi morti del 7 ottobre , dimostrarlo, anzitutto, e poi aiutare in tutti modi ad andare verso una soluzione politica a quella che sta diventando una guerra senza confini.

19 Ottobre 2023

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