L'addio a 96 anni

Giorgio Napolitano, l’ultimo statista con la ‘fissazione’ di difendere le istituzioni

Era il numero 2 della corrente di Amendola, i cosiddetti miglioristi. Sempre molto sobrio nella battaglia interna al Pci. Il meglio di se l’ha dato nelle istituzioni, e soprattutto negli anni del Quirinale

Editoriali - di Michele Prospero

24 Settembre 2023 alle 10:30

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Giorgio Napolitano, l’ultimo statista con la ‘fissazione’ di difendere le istituzioni

Quando nel 2006 Giorgio Napolitano fu eletto con 543 voti presidente della Repubblica, sulla prima pagina del “Giornale” comparve un titolo a nove colonne: “Sul Colle sventola bandiera rossa”. Seguiva anche una vignetta con tanto di falce e martello che dominava minacciosa sul palazzo del Quirinale. L’ascesa al vertice dello Stato di un esponente storico di Botteghe Oscure creò un certo scompiglio nel centrodestra. Sebbene abbia a lungo invocato l’innovazione della cultura politica del Pci in vista di una completa confluenza nel campo della socialdemocrazia europea, Napolitano non ha mai usato verso la tradizione di provenienza l’arma della rimozione.

Nella geografia interna del partito, egli apparteneva alla corrente di Amendola, che spingeva per un tempestivo avvicinamento ad efficaci e credibili posizioni pragmatiche quale segno di una ormai matura idoneità al governo. Nel 1979 Amendola scrisse su “Rinascita”, ricordando la III Conferenza nazionale dei comunisti di fabbrica tenutasi a Genova nel 1965, che “la richiesta di case, scuole, ospedali parve troppo moderata, «socialdemocratica», si disse già allora, di fronte a grandiosi progetti di transizione al socialismo, tanto moderata che ancora oggi, quindici anni dopo, case, scuole ed ospedali, restano obiettivi non ancora raggiunti”. Accanto a questo ancoraggio riformistico, indispensabile per conquistare porzioni di centro, il figlio del martire liberale promuoveva un fortissimo orgoglio di partito. Alla “sottocultura snobistica, elitaria” dei movimenti estremisti, votati alla chiusura minoritaria dell’offerta politica, Amendola contrapponeva, anche come copertura verso ardite virate governiste, “la nostra vecchia morale comunista, severa e rigorosa”.

Sulla scia del suo maestro, anche Napolitano rivendicava un ammodernamento sistematico delle categorie politiche. Rispetto ad Amendola, però, rinunciava al paternalismo del grande vecchio, a quella vena moralistica da erede della Destra storica, al mito della tradizione come strumento di eresia, ben consapevole che, per parlare il linguaggio pedagogico del rivoluzionario della “scelta di vita”, bisognava avere alle spalle la medesima storia di strenuo combattente negli anni bui della guerra civile europea. Nelle istanze di una generale manutenzione della dottrina politica comunista, Napolitano, pur sentendosi erede del realismo togliattiano, celebrato quale base della “rifondazione e consolidamento della democrazia italiana”, avvertiva che “siamo da tempo andati ben oltre Togliatti e la sua scelta di campo”. Le caratteristiche identitarie non rappresentavano una fortezza statica da presidiare, ma – se necessario – andavano sfidate nella consapevolezza che “siamo già usciti dai confini della tradizione comunista”. La proposta di una “identità dinamica”, secondo Napolitano, era destinata a compiersi in una naturale ricongiunzione nel solco del socialismo europeo.

Nel settembre del 1985, sull’“Unità”, egli prendeva di mira alcune posture interne al Pci che, nella denuncia del pericolo di “omologazione”, liquidavano gli esperimenti delle sinistre di governo europee come minacce alla identità del movimento operaio: “Sono rimaste nel nostro partito zone di puro e semplice, non ragionato rigetto delle esperienze socialdemocratiche, e perfino tendenze a una contrapposizione nominalistica e a una etichettatura liquidatoria – a proposito di socialdemocrazia e di socialdemocratici – in sede di dibattito interno”.

Consapevole che con le sue credenziali “di destra” difficilmente avrebbe potuto conquistare lo scettro del partito, Napolitano ha adottato la strategia del condizionamento e del patteggiamento con il segretario di turno. Ha incalzato i leader del Pci per delineare una “più chiara caratterizzazione della nostra opposizione”: alla retorica della “opposizione più dura” egli preferiva un attento lavoro per sorreggere una “più asciutta e convincente capacità di controproposta – senza disperdersi in maratone emendatorie e in contrattazioni defatiganti”. Per lui una robusta cultura di governo rappresentava l’anello mancante della questione comunista, non sempre attenta al programma e agli “evidenti vincoli di coerenza”.

Anche taluni suoi seguaci gli hanno rinfacciato una scarsa propensione alla battaglia energica per mutare gli equilibri dentro la nomenclatura di partito. Il fatto è che la personalità politica di Napolitano, più che per l’esercizio della leadership interna, era spendibile con maggiori frutti nei ruoli istituzionali. Come presidente della Camera e soprattutto quale capo dello Stato, egli ha dato in effetti prova di abilità e capacità di interpretare con rigore delicate funzioni di garanzia. Lungo il suo mandato presidenziale ha conferito un preciso tratto programmatico alla custodia e al rispetto della Carta. Più che negli atti di supplenza istituzionale creativa, necessari per lo sfaldamento della maggioranza dinanzi a una crisi finanziaria inedita o per l’emersione di un tripolarismo paralizzato, la politica del Colle si è manifestata nitidamente in tre direttrici significative: come bussola costante della sua parabola quirinalizia, Napolitano ha infatti cercato di calibrare una cura della laicità e del riconoscimento dei diritti individuali, una solida cultura delle regole e un richiamo forte alla centralità del lavoro.

Nel corso di un duro scontro divampato con il presidente del Consiglio e con una parte del clero per la vicenda Englaro, il Quirinale si aggrappava ai principi dello Stato laico e della certezza del diritto. Napolitano rifiutò l’emanazione di un decreto-legge “salvavita” concepito dal governo non per dettare una urgente disciplina generale di una materia priva di copertura normativa, ma per intervenire su un singolo caso con una procedura considerata inappropriata. Berlusconi indirettamente accusò il capo dello Stato di “omissione di soccorso nei confronti di una persona in pericolo di vita” e parlò di un attivismo che sconfinava nell’“implicazione grave di una eutanasia introdotta nel nostro ordinamento senza una disposizione di legge”. Contro la pretesa irrazionalità dello Stato di diritto, il Cavaliere evocava una guerra nella quale “da una parte c’è la cultura della morte, dello Stato che si impone sulla vita e dall’altra c’è la cultura della libertà e della vita”. A Berlusconi, che adombrava una soluzione carismatico-leaderistica per rendere il Colle prigioniero (“o firma o convoco le Camere ad horas e in tre giorni si fa la legge”), Napolitano replicò con le attribuzioni di sua spettanza per giustificare, sorretto da una ostinata fedeltà alle regole, il potere presidenziale di non emanare i decreti viziati da manifesta incostituzionalità.

Altrettanta attenzione il Colle ha prestato alla censura della decadenza qualitativa del procedimento di formazione delle leggi. Nel messaggio motivato alle Camere del 31 marzo 2010, Napolitano stigmatizzò l’invalsa consuetudine per cui i disegni di legge, attraverso disposizioni “le più disparate”, ospitavano una eterogeneità insostenibile di materie (il testo, correlato alla finanziaria, recava interventi sulla salute, sul lavoro, sugli enti), scavalcando in tal modo anche le competenze delle specifiche commissioni parlamentari, con “effetti negativi” che si ripercuotevano a cascata sull’intera struttura democratica (“sulla conoscibilità e comprensibilità delle disposizioni, sulla organicità del sistema normativo e quindi sulla certezza del diritto”).

Il Quirinale, in una lettera del 22 maggio 2010 rivolta al presidente del Consiglio e ai presidenti di Camera e Senato, denunciava anche le conseguenze negative della pratica della fiducia posta sui maxi-emendamenti (nella specie, l’artifizio era formato da circa 60 articoli, numerosi titoli e 1364 commi): assorbendo nell’iter parlamentare una molteplicità di contenuti impropri, il decreto convertito in legge finiva per essere trasfigurato, con il conseguente imbarazzo del presidente della Repubblica indotto a promulgare un atto sostanzialmente diverso da quello inizialmente avallato (dato che “sulla base delle norme costituzionali vigenti […] non si è ritenuto possibile un rinvio parziale delle leggi”). A più riprese, in nome delle inscalfibili prerogative della rappresentanza parlamentare, Napolitano ha segnalato il consolidarsi di “una tecnica legislativa con incidenza negativa sulla qualità della legislazione”.

Il terzo pilastro della politica presidenziale è stato quello del lavoro. Nella comunicazione con cui rinviava alle Camere il ddl collegato alla manovra di finanza pubblica per gli anni 2009-2013, Napolitano sviluppò considerazioni rilevanti sulla dignità del lavoro perduta nell’età della de-costituzionalizzazione. Respingendo le disposizioni sull’arbitrato in materia lavoristica (che prevedevano la possibilità di escludere la competenza del giudice del lavoro per affidarsi alla decisione secondo equità di un arbitro), il capo dello Stato registrava la “indubbia delicatezza sul piano sociale” del tema della tutela del lavoratore ed evidenziava la minaccia evidente portata verso “diritti indisponibili”.

La presenza di vie alternative al ricorso giurisdizionale, e le spinte molteplici in direzione della fuga dalla legge formale, sollevavano le perplessità del Colle perché tramite siffatte soluzioni sfumava del tutto la preoccupazione di salvaguardare il “contraente debole”: secondo Napolitano, nella stipulazione del contratto di lavoro, “la fase della costituzione del rapporto è il momento nel quale massima è la condizione di debolezza della parte che offre la prestazione di lavoro”. L’introduzione del lodo arbitrale, che procede sulla base della valutazione equitativa e nell’alterazione delle garanzie processuali, di fatto comportava un indirizzo di esplicita “delegificazione” il quale, intaccando nel profondo istituti non solo procedurali, “incide sulla stessa disciplina sostanziale del rapporto di lavoro, rendendolo estremamente flessibile anche al livello del rapporto individuale”.

I tre cardini progettuali indicati da Napolitano (diritti civili nel segno di un ordinamento laico, rappresentanza nel senso della centralità del Parlamento, lavoro quale fondamento della cittadinanza) hanno costituito il fulcro delle preoccupazioni presidenziali. Rimarcando a più riprese la sua inattualità nel tempo del partito personale, della semplificazione del linguaggio, del leaderismo caricaturale cavalcato da figure pseudo-carismatiche, dell’abbandono di ogni politica come pensiero, Napolitano ha esercitato una preziosa azione di garanzia e di conservazione di un ordinamento da lustri così gravemente lesionato.

24 Settembre 2023

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