Il vertice di Johannesburg
Chi sono i Brics: non il club degli amici di Putin ma i Paesi che guideranno il mondo
Non siamo di fronte alla riunione dei paesi emergenti o a una riedizione del terzomondismo. Sono i paesi destinati a prendere le redini dell’economia mondiale.
Esteri - di Massimo D'Alema
Di seguito l’introduzione di D’Alema alla sezione dedicata ai BRICS dell’ultimo numero di “Italianieuropei”.
Pubblichiamo l’intervento del presidente del Brasile Luiz Inácio “Lula” da Silva alla sessione inaugurale del vertice di Johannesburg dei BRICS perché ci è parso significativo per comprendere quale sia la visione delle relazioni internazionali e quali gli obiettivi di un insieme di paesi che rappresentano ormai la realtà fondamentale del nuovo mondo che avanza. La riunione di Johannesburg e l’allargamento dell’organizzazione ad Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi, nella prospettiva di un probabile non lontano nuovo allargamento, costituiscono gli eventi più importanti nello scenario internazionale di oggi.
Le decisioni che sono state lì assunte, in particolare la creazione di una grande banca multilaterale e l’orientamento a liberare, in prospettiva, gli scambi commerciali dalla signoria incontrastata del dollaro, sono il segno di grandi cambiamenti che sono destinati a mutare radicalmente gli equilibri e i rapporti di forza nel corso dei prossimi decenni. La riunione di Johannesburg dimostra anche che il tentativo americano e occidentale di imbrigliare il cambiamento nella morsa di una nuova guerra fredda fra “il blocco delle democrazie” e i paesi autoritari è sostanzialmente destinato a fallire e appare a gran parte del mondo semplicemente come un modo di puntellare la declinante egemonia degli Stati Uniti e dell’Occidente.
Il summit BRICS di Johannesburg non è stato quindi l’assemblea degli amici della Russia di Putin. È del tutto evidente che la grandissima maggioranza di quei paesi non può condividere né accettare la violazione dell’integrità territoriale e la guerra di aggressione condotta dalla Russia in Ucraina. La Russia è stata ai margini di quella riunione che, da questo punto di vista, ha reso evidente il declino del ruolo internazionale di un paese trascinato da Putin lungo una deriva nazionalista e bellicista che costerà al popolo russo un prezzo altissimo. A fronte di ciò, tuttavia, la maggior parte dell’umanità rifiuta di allinearsi alla posizione americana e dell’Occidente. Anzitutto perché è larghissima la convinzione che l’Occidente sia corresponsabile delle cause che hanno portato al conflitto, attraverso una politica che non ha saputo costruire un nuovo equilibrio in Europa e si è affidata soltanto in maniera arrogante all’espansione della NATO.
In secondo luogo perché vi è una amplissima e non infondata convinzione che nella difesa dei diritti umani, della democrazia e dei principi del diritto internazionale il mondo occidentale sia tutt’altro che coerente e applichi standard molto diversi a seconda degli interessi che ha in diverse aree del mondo. Non è facile smentire la fondatezza di queste convinzioni, cui si aggiunge l’idea che oggi né l’Europa né gli Stati Uniti facciano nulla per cercare di fermare il conflitto e creare le condizioni per una pace sostenibile tra Ucraina e Russia. Colpisce la relativa scarsa attenzione con cui si guarda nel nostro mondo a eventi e processi di portata epocale come quelli che riguardano i BRICS e la loro prospettiva.
Crediamo che non ci si renda conto che noi non siamo di fronte alla riunione dei paesi emergenti o una riedizione del terzomondismo del secolo scorso. Quelli che si vanno organizzando e vanno costruendo una nuova rete di relazioni tra di loro che prescinde quasi completamente dall’Occidente, sono i paesi destinati in breve tempo a guidare l’economia mondiale. Goldman Sachs ha pubblicato recentemente un report assai interessante sulle prospettive dell’economia mondiale di qui al 2075.
Non solo questa previsione, che proviene da una fonte insospettabile, conferma che già dal 2050 vi sarà un primato della Cina, ma ci spiega che negli anni successivi anche l’India scavalcherà gli Stati Uniti, che di qui a cinquant’anni rappresenteranno la terza economia del mondo seguiti – attenzione – dall’Indonesia, poi dalla Nigeria, quindi dal Pakistan, dall’Egitto e dopo ancora dal Brasile. Per trovare un membro dell’attuale comitiva del G7 bisogna arrivare al nono posto della Germania. Si capisce quindi come gran parte del mondo viva con una certa irritazione l’idea di un direttorio che pretende di indirizzare gli affari internazionali senza oramai più alcuna legittimazione.
Siamo nel vivo di un cambiamento epocale, annunciato in modo irreversibile dalle tendenze demografiche, dallo spostamento dei luoghi fondamentali della produzione, dal controllo delle materie prime che questi paesi stanno riprendendo nelle proprie mani dopo che per lungo tempo i paesi ricchi se ne erano appropriati. L’impressione è che purtroppo non ci sia una strategia nel nostro mondo per affrontare questi cambiamenti; strategia che manca soprattutto all’Europa, che potrebbe rappresentare, molto più degli Stati Uniti, un ponte verso la nuova realtà e contribuire, con la forza della sua tradizione e della sua cultura, alla costruzione di un equilibrio più giusto e ragionevole.