Il caso del Cie barese
Umiliare gli immigrati nei Cpr offende i cittadini: ministero degli Interni condannato a risarcire
Nessun essere umano può essere detenuto senza aver commesso reati punibili con la reclusione, ha ribadito la Corte. Il Ministero degli Interni condannato a pagare la città di Bari per i maltrattamenti agli stranieri in gabbia. Ecco la storia
Editoriali - di Luigi Paccione
Moltiplicazione delle celle per immigrati sul territorio nazionale, prolungamento della detenzione sino a 18 mesi, minaccia di “blocchi navali”. Intanto però la Corte di Cassazione, con sentenza n. 26801, conclude parzialmente un lungo processo civile promosso con azione popolare per garantire l’effettività del rispetto della dignità umana nel Centro di Identificazione e di Espulsione, quelli che oggi chiamiamo Cpr, nella città di Bari.
La vicenda processuale nasce nel 2011 dall’iniziativa mia e di Alessio Carlucci. Esiste una norma che consente ai cittadini residenti di sostituire l’ente locale le quante volte questo non eserciti i suoi diritti a protezione della comunità rappresentata. E’ l’art. 9 del d.lgs n. 267/2000. Cosa abbiamo fatto? In applicazione del principio di militanza della cittadinanza sociale al servizio del bene comune ci siamo sostituiti processualmente al Comune di Bari in forza e abbiamo citato in giudizio civile il Ministero dell’Interno per far accertare l’illegalità dei dispositivi di detenzione di esseri umani messi in atto nel Cie barese. Ecco la storia.
Il Tribunale di Bari dispose un accertamento tecnico sullo stato effettivo dei luoghi, da svolgersi in contraddittorio con il Ministero dell’Interno, alla luce del principio dettato dall’allora vigente art. 14 c. 2 della legge Turco – Napolitano secondo cui “Lo straniero è trattenuto nel centro con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza ed il pieno rispetto della sua dignità”. A valle dell’accertamento tecnico la natura carceraria del Cie barese emerse con chiarezza, visto che:
1) l’ingresso nella struttura, previa autorizzazione del Prefetto di Bari, poteva avvenire solo attraverso una postazione fissa blindata e militarizzata;
2) le persone rinchiuse nel Centro venivano sottoposte ad un regime di detenzione all’interno di celle chiuse da porte metalliche con serratura esterna e sorvegliate con sistemi antievasione da personale della Polizia di Stato e delle Forze Armate;
3) l’accesso nei Moduli che conducevano alle celle poteva avvenire solo “tramite apertura da parte dell’operatore di turno di una porta metallica rinforzata a due ante, munita di oblò”, provvista cioè di spioncino che consente l’introspezione dal corridoio da parte dell’agente sorvegliante;
4) le celle interne ai singoli “Moduli” avevano finestre con inferriata metallica fissa antievasione;
5) l’illuminazione elettrica nelle ore notturne avveniva con “accensione comandata dall’esterno” dai sorveglianti;
6) ciascuna cella era dotata di 4 letti metallici monoblocco fissati a pavimento, con adiacente blocco di calcestruzzo utilizzato come comodino, e da una struttura a nicchie, sempre in calcestruzzo, utilizzata come armadietto;
7) v’era totale mancanza di riservatezza nella zona dei servizi igienico – sanitari;
8) i detenuti avevano contatto diretto solo con i compagni di reclusione nel Modulo assegnato, senza possibilità di socializzare con i ristretti in altro Modulo se non previa autorizzazione dei sorveglianti;
9) l’intera area del Cie era recintata da “alta cancellata metallica con sistema antievasione e sistema di videosorveglianza”;
10) il Centro era munito di “impianto di video-sorveglianza perimetrale e di impianto antievasione con barriere a radar”.
Il Cie, ne avevamo finalmente acquisita prova, era dunque in tutto e per tutto un carcere extra ordinem con l’aggravante che il trattamento ivi erogato, già di per sé illegale, non consentiva neppure l’applicazione delle prescrizioni dettate dall’ordinamento penitenziario a tutela dei detenuti. Insomma, il Cie appariva quale oscuro luogo sottratto al controllo democratico (nell’apparente indifferenza delle assemblee elettive nazionali e locali), abitato da esseri umani deprivati del basilare diritto al rispetto della loro dignità.
Un inferno in terra idoneo a produrre ripetuti torti di massa nei confronti di un’indifferenziata platea di potenziali innocenti persone.
Il Tribunale di Bari, a seguito della complessa istruttoria processuale, prese atto che le condizioni di trattenimento dei migranti nel Cie di Bari violavano la dignità umana e per l’effetto condannò il Ministero dell’Interno al risarcimento del danno all’immagine subito dal Comune di Bari. La Corte d’Appello nel grado successivo riformò la sentenza del Tribunale assumendo che il danno causato dalle condotte illecite ministeriali riguardasse non l’immagine ma esclusivamente l’identità storico – culturale della città di Bari per come scolpita nello Statuto dell’Ente, il quale descrive il capoluogo della Regione Puglia quale “comunità aperta a uomini e donne, anche di diversa cittadinanza e apolidi” (art. 1, comma 1, dello stesso), e “luogo tradizionale di incontri e di scambi”, che ha “la vocazione di legare civiltà, religioni e culture diverse, in particolare quelle del Levante e quelle Europee” (art. 1, comma 2).
Affermava la Corte d’Appello che sulla scorta dei principi statutari baresi il Ministero dell’Interno, avendo consumato pratiche violative dei diritti umani, violava l’identità della città di Bari nota nel mondo come luogo di accoglienza e di solidarietà. Questa importante decisione, nella sua impostazione teorica, è stata integralmente confermata dalla Corte di Cassazione nello stesso giorno in cui il governo Meloni ha annunciato la moltiplicazione del Cpr sul territorio nazionale e il prolungamento della detenzione sino a mesi 18.
A questo punto non resta che augurarsi anche la moltiplicazione in ogni parte d’Italia di azioni popolari che, in supplenza di Enti locali eventualmente inerti, operino in difesa dei diritti inviolabili e sostengano il principio di diritto secondo cui nessun essere umano, indipendentemente dal suo status giuridico e appartenenza etnica, può essere sottoposto a regime carcerario senza aver commesso reati punibili con la reclusione.