Rapporto sullo sfruttamento
Così i profitti si sono mangiati i salari, Mediobanca spiega il tracollo dell’Italia
Una indagine che illustra la rivoluzione sociale avvenuta nel 2022: i fatturati delle aziende sono aumentati di oltre il 30 per cento, i salari dei lavoratori si sono ridotti di oltre un quinto. Il mercato non funziona più, la politica deve decidersi a prendere misure di redistribuzione della ricchezza
Editoriali - di Piero Sansonetti
L’ufficio studi di Mediobanca ha disegnato la mappa degli spostamenti avvenuti nell’economia italiana nel 2022. Sono spostamenti giganteschi. L’inflazione ha danneggiato pesantemente il nostro paese e la sua ricchezza. La cui crescita reale è stata assai modesta: circa dello 0,6 per cento. Però i danni non sono stati uniformi. E hanno provocato un fortissimo sommovimento negli assetti sociali. In sintesi possiamo riassumere così il rapporto di Mediobanca: i fatturati delle aziende – specialmente delle industrie – spinti dall’inflazione, sono cresciuti impetuosamente, di oltre il 30 per cento. Sono cresciuti anche i profitti e le rendite. Viceversa il potere di acquisto dei salari si è ridotto in modo quasi speculare: del 22 per cento.
Cerchiamo di essere più chiari. Un lavoratore che nel 1921 disponeva di un potere di acquisto pari a 1500 euro, si trova, nel 2023, con un potere di acquisto pari a 1200 euro. Viceversa una impresa che fatturava 10 milioni ora ne fattura 13. In termini di Pil, il guadagno del “capitale” è stato in gran parte riassorbito dalle perdite dei salari. E di conseguenza la società italiana, pur avendo difeso la sua ricchezza, l’ha trasferita dai ceti più poveri a quelli più ricchi. Non in forma impercettibile, ma in dimensioni abnormi. Parliamo di circa un quarto della ricchezza del paese che si è spostato. E cioè – ci dice Mediobanca – l’Italia del 2023 è paurosamente diversa dall’Italia del 2021. Le differenze sociali sono moltiplicate. La quantità di persone che si trovano in una zona di galleggiamento tra la povertà e la semi-povertà è molto grande.
L’indagine di Mediobanca non è stata realizzata a volo d’uccello. O con il metodo del sondaggio. È stata una robusta opera di indagine che ha esaminato l’andamento economico della metà esatta delle aziende italiane. Il fatturato preso in esame è di 1000 miliardi, pari a più della metà del Pil. Naturalmente l’indagine di Mediobanca non ha un valore esclusivamente sociologico. Né economico. Pone un problema molto serio alla politica. Per due ragioni. La prima è che conferma un dato che già era emerso in studi degli ultimi mesi, sempre sottovalutato dall’informazione, e cioè che sono i profitti e non i salari a spingere l’inflazione; la seconda è che il problema sul tappeto non riguarda tanto la necessità di spingere lo sviluppo – che comunque non si è fermato – ma è quello di preparare delle politiche di redistribuzione.
La vecchia idea della destra, ma anche di una parte del centrosinistra – dagli anni 90 in poi – che l’aumento della produzione di ricchezza porta necessariamente con sé porzioni di redistribuzione di ricchezza, è del tutto smentita da questi dati. L’aumento della produzione, seppur modesta, c’è stata, ma non ha portato nessun miglioramento, anzi ha determinato un peggioramento delle condizioni economiche del ceto medio basso, e del proletariato, delle classi lavoratrici e dei migranti.
Se le cose stanno così – e a dirlo non è un sindacato o un partito di sinistra ma uno dei luoghi sacri del capitalismo italiano, il santuario che fu di Cuccia e cioè del padre di tutte le borghesie – bisognerà prendere atto del fatto che le ricette economiche delle destre sono messe in mora. E che è necessario, di conseguenza, sostituirle con ipotesi di sviluppo e di governo dell’economia molto diverse. Che non puntino sulla riduzione del costo del lavoro come motore per una competizione internazionale vincente, e che non si limitino a indicare il lavoro come soluzione di tutti i problemi sociali.
Mediobanca ci dice che in solo un anno una parte cospicua della classe lavoratrice è caduta sotto il livello di povertà. E’ chiaro che a questa emergenza non puoi rispondere ripetendo il vecchio slogan: “la povertà e il disagio sociale si sconfiggono creando nuovi posti di lavoro”. Se ai posti di lavoro non corrispondono salari e stipendi di livello alto, il posto di lavoro non è più un rimedio alla povertà, né la chiave di un meccanismo automatico di redistribuzione della ricchezza. Il rapporto tra lavoro e capitale diventa sempre più stringente a favore del capitale. E il lavoro diventa un semplice fattore dell’aumento di redditività del capitale.
Una volta si diceva: sfruttamento. Il rapporto di Mediobanca è un urlo di allarme che dice esattamente questo: attenzione, un clamoroso processo di sfruttamento sta strangolando il paese. E lo dice a ragione. Perché l’aumento della povertà e della semi-povertà, e delle differenze sociali, non è solo un elemento di ingiustizia, sul piano etico, o dei principi, o dello sviluppo della civiltà. Ma lo è anche per la tenuta dell’economia. La perdita di potere d’acquisto dei salari – congiunta alla fine del reddito di cittadinanza che forniva qualche risorsa alla parte più povera della popolazione – comporta una crisi del mercato interno. E – da un punto di vista molto diverso – un incattivimento dei rapporti sociali, e quindi della conflittualità, e -infine- persino dei rapporti umani. Diciamo che indebolisce e corrompe la nostra società, e danneggia persino il mercato.
È in grado il mercato stesso – come vorrebbe l’idea puramente liberista – di affrontare questo problema? Non lo è, perché il mercato vive di profitti e non di idee filosofiche. Il mercato, per sua natura, è governato esclusivamente dalla legge del guadagno e della concorrenza. Non può che spingere per l’aumento dei profitti, e anche delle rendite – che sono collegate strettamente ai profitti. E allora? Si propone con vera urgenza il problema dello Stato. Di come possa intervenire e determinare veri e propri, e massicci, processi di redistribuzione. Ma lo Stato può intervenire solo se si muove la politica. Se si decide a dare uno scossone, dopo 25 anni di letargo.
La politica è sparita dalla scena dai primi anni Novanta. Si è accoccolata sulla convinzione che la teoria liberista e il mercato risolvessero ogni problema. Ha creduto di poter amministrare. E anche, eventualmente, speculare sulla sua possibilità di influire, seppure molto marginalmente, sul mercato. Il risultato è la crisi di oggi. E la probabilità che la crisi si aggravi e diventi bomba sociale. All’ordine del giorno c’è una vera emergenza. Che richiede – come piace dire a Giorgia Meloni – un intervento “strutturale”. È la riforma dello Stato, e la riforma del mercato, e la riforma dei rapporti tra Stato e mercato.
La riforma dello Stato è una cosa molto più complicata dell’elezione diretta del premier, o dell’abolizione del Senato o del cambio della legge elettorale. Si tratta di ridefinire i compiti dello Stato e i suoi poteri, specialmente nel campo sociale e del governo dell’economia. Chissà se, almeno sulla spinta di Mediobanca, qualcuno a destra, o magari – finalmente – a sinistra avrà il coraggio di gettare sul piatto questa emergenza. E di dire a tutti di piantarla con il vizio di inventarsi emergenze che non esistono per giustificare l’assenza della politica sui problemi veri.