La guerra al carovita
Come fermare l’inflazione: meno profitti e più salari
Il caro prezzi nell’area dell’euro continua ad attestarsi su livelli superiori al 2% fi ssato da Francoforte. Alimenti, alcool e tabacco segnano un +11,7% contro il +12,5% di maggio
Economia - di Alessandro Plateroti
La guerra al carovita in Europa resta in affanno. Malgrado i continui rialzi dei tassi di interesse della BCE, l’inflazione dell’area dell’euro continua ad attestarsi su livelli preoccupanti e ben superiori al tasso-obiettivo del 2% fissato da Francoforte, con il dato di giugno che solo all’apparenza evidenzia segnali di miglioramento.
Anche se l’indice generale dei prezzi dell’area euro segna a giugno un aumento del 5,5% contro il 6,1% di maggio, infatti, la componente più importante dell’indicatore – quella misurata al netto delle componenti più volatili dell’energia e dei beni alimentari – è rimasta sostanzialmente invariata al +5,4%, aprendo la porta a ulteriori rincari del costo del denaro almeno di qui a fine anno. Ancora una volta, sono i servizi a provocare i rincari più vistosi del costo della vita. Alimenti, alcool e tabacco segnano un +11,7%, contro il +12,5% di maggio, mentre i beni industriali (al netto dell’energia) un +5,5% contro il +5,8% di maggio: al contrario, il prezzo dei servizi è salito del 5,4% dal 5% del mese precedente, mentre l’energia ha segnato un -5,6% dal -1,8% del mese precedente.
Per l’Italia, che insieme alla Francia, alla Spagna e al Portogallo sta evidenziando i migliori progressi sul fronte inflazionistico, sembrano insomma tramontare definitivamente le speranze di una pausa nella manovra di stretta creditizia della Banca Centrale Europea, sempre più determinata a riportare il tasso di inflazione europeo al livello di riferimento del 2%: ciò significa che le famiglie italiane dovranno prepararsi a ulteriori rincari del costo dei mutui e dei prestiti al consumo, già saliti ora a livelli preoccupanti se non insostenibili, soprattutto per i redditi più bassi.
Fermare la spirale inflazionistica è insomma una priorità assoluta, sia per ragioni economiche che per evitare l’esplosione di tensioni sociali: a tenere alto il caro-vita non è del resto né la guerra in Ucraina né il rincaro delle materie prime, ma soprattutto il “cinismo” e l’opportunismo delle imprese sul fronte dei profitti aziendali. Mentre gli stipendi sono fermi e il loro potere d’acquisto scende da due anni, gli utili delle imprese non solo sono saliti ben oltre i livelli pre-pandemia, ma rappresentano ora quasi la metà del rialzo del tasso di inflazione europeo. Pur avendo beneficiato dei sussidi pubblici per il caro-bollette, le aziende – a cominciare da quelle tedesche – hanno aumentato i prezzi ben oltre l’aumento dei costi dell’energia importata. Ma ora che i lavoratori reclamano aumenti salariali per recuperare il potere d’acquisto perso per l’inflazione, le aziende potrebbero essere costrette a invertire la rotta: in pratica, se il sistema imprenditoriale vuole fare davvero la sua parte nella lotta al caro-vita, fermare i prezzi e i profitti e aumentare i salari sarebbe un passo fondamentale, sociale e monetario.
Le cifre parlano chiaro. L’inflazione nell’area dell’euro ha raggiunto il picco del 10,6% nell’ottobre 2022 quando i costi di importazione sono aumentati dopo l’invasione russa dell’Ucraina e le aziende hanno trasferito questo aumento dei costi direttamente ai consumatori. Da allora l’inflazione è scesa al 5,5% (giugno 2023), ma l’inflazione core, una misura più affidabile delle pressioni sui prezzi sottostanti, si è dimostrata più persistente. Ciò sta mantenendo la pressione sulla BCE, che a giugno ha portato i tassi al 3,5%, il massimo di 22 anni.“L’inflazione più elevata – conferma anche il Fondo Monetario – riflette principalmente profitti e prezzi all’importazione più elevati, con i profitti che rappresentano il 45% degli aumenti dei prezzi dall’inizio del 2022. I costi di importazione rappresentavano circa il 40% dell’inflazione, mentre il costo del lavoro rappresentava il 25%. Le tasse hanno avuto un impatto leggermente deflazionistico”.
In altre parole, finora le imprese europee sono state protette dallo shock negativo dei costi più dei lavoratori. I profitti (adeguati all’inflazione) sono stati di circa l’1% superiori al livello pre-pandemia nel primo trimestre di quest’anno. Nel frattempo, le retribuzioni dei dipendenti (anch’essa rettificate) sono state di circa il 2% inferiori al trend. L’esperienza del passato sui rincari energetici suggerisce che il contributo del costo del lavoro all’inflazione sia destinato a crescere nel prossimo futuro. In effetti, è già aumentato negli ultimi trimestri. Allo stesso tempo, il contributo dei prezzi all’importazione è diminuito rispetto al picco di metà 2022. Questo ritardo nei guadagni salariali ha senso: i salari sono più lenti dei prezzi a reagire agli shock. Ciò è in parte dovuto al fatto che le trattative salariali sono saltuarie. Ma dopo aver visto i loro salari diminuire di circa il 5% in termini reali nel 2022, i lavoratori stanno ora spingendo per aumenti consistenti.
Le domande chiave sono quanto velocemente aumenteranno i salari e se le aziende assorbiranno costi salariali più elevati senza aumentare ulteriormente i prezzi. “Supponendo che i salari nominali – spiega l’Fmi – aumentino a un ritmo di circa il 4,5% nei prossimi due anni (leggermente al di sotto del tasso di crescita osservato nel primo trimestre del 2023) e che la produttività del lavoro rimanga sostanzialmente invariata nei prossimi due anni, la quota di profitto delle imprese avrebbe tornare ai livelli pre-pandemia affinché l’inflazione raggiunga l’obiettivo della BCE entro la metà del 2025. I nostri calcoli presuppongono che i prezzi delle materie prime continuino a diminuire”.
Se i salari aumentassero in modo più significativo, ad esempio del tasso del 5,5% necessario per riportare i salari reali al livello pre-pandemico entro la fine del 2024, la quota di profitto dovrebbe scendere al livello più basso dalla metà degli anni ‘90 (salvo eventuali aumento inatteso della produttività) affinché l’inflazione torni al tasso obiettivo del 2%.
Per concludere, c’è una sola strada per uscire dalla palude del caro-vita: le politiche macroeconomiche dei governi devono rimanere rigide per ancorare le aspettative e mantenere una domanda contenuta. Ciò convincerebbe le imprese ad accettare una compressione della quota di profitti e i salari reali potrebbero riprendersi a un ritmo sostenibile. Soprattutto in Italia, dove i lavoratori non possono nemmeno contare su un salario minimo, al contrario della stragrande maggioranza dei Paesi europei.