Politica e nuove tecnologie

Intelligenza artificiale e lavoro, la rivoluzione silenziosa del turbocapitalismo

La Macchina degli algoritmi capace di pensare ed eseguire mansioni al posto degli umani provocherà la perdita di 300 milioni di occupazioni. Chi sfamerà tanti disoccupati? Le multinazionali?

Politica - di Luca Casarini - 9 Settembre 2023

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Intelligenza artificiale e lavoro, la rivoluzione silenziosa del turbocapitalismo

La presidente Giorgia Meloni ha incontrato alcuni giorni fa il fondatore di Linkedin, Reid Hoffman, che è ritenuto uno dei massimi esperti dello sviluppo globale dell’Intelligenza artificiale. L’incontro, fanno sapere da Palazzo Chigi, ha riguardato potenzialità e rischi di questa nuova “macchina tecnologica”, anche in vista del semestre di presidenza italiana del G7, chiamato ormai a dover discernere, in termine di regolamenti e strategie di sviluppo e controllo, della politica sulla nuova tecnologia. Una materia epocale.

È una questione, questa dell’Intelligenza artificiale, le cui implicazioni sociali, economiche, ma anche filosofiche e culturali, non sfuggono a nessuno. La creazione da parte dell’”Intelligenza Naturale”, quella dell’uomo, di una altra “intelligenza”, chiamata “artificiale” proprio perché creata dal cervello umano, segna un salto che non è solo in avanti, ma anche così in alto che non si può ancora dire se ci farà toccare la terra di un futuro migliore, o se ad attendere l’umano, dopo il volo, vi sarà un baratro. Per ora siamo nella fase dell’elevazione, ma sarebbe stolto non pensare anche alle ricadute. Ovviamente sappiamo, nonostante gli appelli per “fermare la corsa” di coloro che hanno contribuito a metterla a punto, che niente si fermerà. La “locomotiva” della scienza non si ferma, non è mai accaduto, nemmeno con l’atomica. Il nostro destino è comunque volare in alto e cadere.

Semmai la vere questioni, da Icaro in poi, sono perché vogliamo volare e dove cadiamo, e come cadiamo. Anche la teologia politica può aiutarci nel comprendere che l’essere “protesi verso l’alto” e fare sempre poi i conti con il “ritorno a terra”, è parte della nostra natura umana attraversata dall’azione dello “Spirito”. Se accogliamo davvero ciò che siamo diventati e che siamo sempre stati, non ci dobbiamo stupire, ma saperci interrogare, su questo nostro destino. L’Intelligenza Artificiale è creata dall’uomo, ma è “intelligenza”. Questo è un primo grande salto. Vi è una differenza tra una macchina dalle enormi capacità di calcolo, e un’altra capace di autoprogrammarsi e costruire nuove macchine. La discussione su ciò che arriverà a fare la Macchina, in questo suo processo di continuo accumulo di informazioni combinate tra loro in maniera “intelligente”, è appena all’inizio.

Lo scopo primario, determinato da chi tra gli uomini ha il potere e il denaro per mettere le intelligenze naturali di altri uomini al servizio di costruzione e crescita della Macchina, è la sua messa al lavoro. “Lavoro”, in termini globali e nel sistema capitalistico al quale fanno riferimento gli uomini con soldi e potere, significa tante cose. Può voler dire sostituire gli umani nel lavoro ripetitivo, faticoso, pericoloso, ad esempio. Ma anche fare le guerre è parte di quel “lavoro” in un sistema come il nostro. Più che far costruire cyborg alla Macchina, che combattano e muoiano al posto degli esseri umani, la tendenza sembra quella invece di sviluppare sempre di più dispositivi di sterminio di altri esseri umani più rapidi ed efficaci.

Il solco tracciato dall’Atomica sembra rimanere ben scavato. Ad esempio, se si guarda alla mole di studi e di ricerche compiute per creare il casco di un pilota di jet da combattimento, non si ha difficoltà nell’intuire la direzione verso cui punta il sistema. L’F-35 Gen III Helmet Mounted Display System (HDMS), il casco messo a punto per i piloti dalla Lockeed Martin, costa 400.000 dollari. Ogni casco costa quanto il reddito medio annuale in occidente di 50mila persone. È un concentrato di tecnologia avanzatissima e integrata, che trasforma il campo visivo del pilota in una “esperienza di realtà aumentata”, in cui le funzioni, anche quelle di puntamento, sono ordinate dallo sguardo, dagli occhi, attraverso il display heads-up. Un casco che permette anche di vedere oltre le pareti dell’abitacolo del jet, grazie ad una fitta matrice di videocamere intrecciate ad un potente software.

Possiamo mai pensare che una delle ragioni principali sugli investimenti nell’Intelligenza Artificiale, non sia dunque la guerra? Basterebbe questa considerazione per illuminare le giuste domande: a che scopo vogliamo questa nuova Macchina, così potente da doverla definire intelligenza? Vogliamo usarla per costruire l’alternativa al lavoro dei bambini del Congo costretti ad infilarsi dentro i buchi della terra nelle miniere di Cobalto? O per impedire che nel fare manutenzione ai binari dei treni di notte, accadano stragi di operai? Oppure questa Macchina sarà utilizzata per fare meglio, in maniera più rapida ed efficace, il lavoro di sterminio dei civili nelle guerre, che in maniera permanente caratterizzano questo mondo? Chiederemo alla Macchina di gestire bombardamenti, interruzioni di energia elettrica e acqua per prendere per fame interi stati, gli chiederemo di costruire altre macchine per dissolvere eserciti o polverizzare abitanti di città sotto assedio?

La guerra tra robot non sembra all’ordine del giorno, nemmeno nei piani degli esperti. Se un casco costa mezzo milione di dollari, e un caccia F-35 cento milioni di euro, chi si potrà permettere di mandare al massacro un esercito di scintillanti combattenti meccatronici, concentrati di tecnologia costosissima? Alla fine gli uomini “naturali” per formare eserciti non costano quasi niente. E ce ne sono sempre di più in questo nostro pianeta, arrivato ormai oltre gli otto miliardi. Ovviamente non sono queste le riflessioni dei governanti. Almeno non sembra. L’IA è grande motivo di preoccupazione per l’impatto sulle economie degli stati e dei continenti. “The Potentially Large Effects of Artificial Intelligence on Economic Growth” è il titolo di un report che sta circolando ai piani alti. È della Goldman Sachs, firmato da Joseph Briggs e Devesh Kodnani.

La previsione è che l’IA provocherà la perdita di 300 milioni di posti di lavoro, a fronte però di un aumento del PIL globale di sette trilioni di dollari. Questa cifra che i comuni mortali forse avranno letto solo su Topolino quando Zio Paperone contava i soldi del deposito, giustifica per i grandi player capitalistici, il rischio di non vedere allineati gli effetti di perdita dei posti di lavoro (displacement) con quelli della creazione di nuova occupazione, che sempre accompagnano le rivoluzioni industriali e tecnologiche. Dagli anni 80 del secolo scorso infatti, all’avvio della rivoluzione informatica, si registra questa asincronia: il salto tecnologico è troppo veloce e distrugge vecchie mansioni umane in maniera rapida, e le nuove occupazioni che si accompagnano crescono troppo lentamente. È chiaro che quello che manca è un adeguamento dei sistemi di welfare adatti ad affrontare questo gap. Sarebbe interessante incrociare questi dati con la battaglia dell’opposizione per il salario minimo a 9 euro per ordine statale. Ai disoccupati futuri, che salario gli diamo?

Per usare una metafora, i bambini in Congo estraggono Cobalto per noi 12 ore al giorno, ma se mettessimo macchine al posto loro, poi avrebbero comunque bisogno di mangiare e di vivere. Rimanendo nella parte di mondo privilegiata, la nostra, che è quella della quale si occupa lo studio in questione, se quasi il 50% degli impieghi umani in campo amministrativo, legale, di architettura, ingegneria e logistica, vengono rimpiazzati da Intelligenza Artificiale Generativa, come faranno a vivere le persone che perderanno il lavoro? Quei sette trilioni saranno redistribuiti per aumentare l’accesso alla sanità, ai servizi pubblici, alla casa, all’istruzione, o finiranno nelle tasche di coloro che sono già ricchi e straricchi, coloro che vivono accumulando tutta la ricchezza disponibile per avere potere di decisione sulle vite degli altri esseri umani? L’esempio del mercato dei vaccini durante la Pandemia è d’obbligo: nonostante il carattere epocale dell’emergenza, la ricerca, la produzione e la distribuzione dei vaccini è rimasta saldamente in mano al mercato privato.

Gli stati hanno riempito di soldi le multinazionali di Big Pharma, senza imporre nemmeno la socializzazione dei brevetti. Ci sarebbe molto da dire sulla natura stessa dell’emergenza e sul fatto che, alla fine, gran parte del mondo i vaccini non li ha nemmeno visti, ma basta questo dato per far capire quale sarà la tendenza di privatizzazione della ricchezza che continuerà a farla da padrone anche con l’Intelligenza Artificiale. Questo riporta alle domande iniziali: chi controlla e sfrutta l’intelligenza umana capace di creare quella artificiale? Se è un gruppo di uomini ricchi e potenti che ha in mano tutto, e se questa forma di intelligenza definita “generativa” sarà capace non solo di sostituire molto lavoro umano, ma anche di acquisire conoscenza, a tal punto da invadere il campo della creatività ad esempio, cosa ne sarà del resto degli umani esclusi? Questo aspetto della creatività umana “riproducibile” dalla Macchina, è stato messo sotto i riflettori dallo sciopero di Hollywood.

Qui da noi, provincia dell’Impero, ce ne siamo accorti per la mancata partecipazione delle star americane alla Mostra del Cinema di Venezia. Ma non si è ben capito, perché non si è ben spiegato al grande pubblico, perché prima gli autori e poi gli attori della più grande fabbrica di immaginari del mondo, sono entrati in sciopero e stanno conducendo una lotta contro i padroni delle major. Il tema è proprio l’IA. A giugno la Directors Guild of America (DGA), l’associazione statunitense che riunisce i registi di cinema e tv, era sul punto di firmare il contratto collettivo con gli studios di Hollywood. È stata per prima una delle madri di Matrix, Lilly Wachowsky, a spiegare il perché avrebbe detto no, poi seguita da molti altri. Sul contratto non era sufficientemente chiaro il limite nell’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale nel processo di produzione di un film. A loro, in luglio, si sono uniti gli attori.

Con sceneggiature scritte dalla Macchina e ampiamente utilizzate da Netflix, Disney, Paramount, Apple, Warner Bros per i prodotti da piattaforma, è risultato chiaro l’orizzonte. Se i diritti di utilizzo della figura rappresentata da un attore in un film, comprendessero anche lo sviluppo in IA di nuovi prodotti, allora degli attori in quanto tali, come degli sceneggiatori e dei registi, non ci sarebbe più alcun bisogno. Gli attori e i loro colleghi creativi fanno gola come fonti originali da reimmettere nelle capacità della Macchina di creare nuovi prodotti a basso costo. Proprio come gli agenti Smith di Matrix. Forse Favino, quando protesta per l’utilizzo di attori americani per i film italiani, questo non lo sa. Forse il tema non è più la nazionalità degli attori, ma la loro fisicità impressa nella pellicola, ormai trasformata in un logaritmo di proprietà di chi controlla la Macchina. E lo stesso dicasi per scrittori e sceneggiatori.

Se a Venezia si discutesse di questo, certo la storia di quella mostra sarebbe di molto nobilitata. “Sono fermamente convinta che la battaglia che ci troviamo ad affrontare in questo momento nel nostro settore sia un microcosmo di una crisi molto più grande e fondamentale” ha twittato Lilly Wachowski. Dunque, lo scenario del mondo come un inferno, se i presupposti di questa grande innovazione epocale fossero sempre quelli che abbiamo finora conosciuto, sarebbero moltiplicati per mille. Sempre un piccolo clan di umani ricchissimi e potenti che ha in mano l’intelligenza naturale capace di creare e governare quella artificiale ma quest’ultima, però, diversamente dalle altre tecnologie sin qui create, va verso un’autonomia (per questo la chiamano “generativa”) dalle conseguenze imprevedibili; gli altri umani esclusi da questo “Olimpo dei creatori”, più giù, separati a vari gradi, a cerchi concentrici verso il basso.

Tutti umani di serie B questi ultimi, ma differenziati fino ad arrivare a quelli “superflui”. Quelli che non producono e non consumano a sufficienza. Per capirci i bambini del Congo in miniera, o i migranti rinchiusi nei lager libici, abbandonati nel deserto tunisino o fatti annegare nel Mediterraneo centrale. Ecco quindi che le grandi domande ritornano: che senso diamo a questo protenderci verso l’alto della conoscenza, a questo continuo valicare confini? Come ci prepariamo a toccare terra, mentre voliamo alto verso la luce, senza infilarci nelle viscere e nelle tenebre di un pozzo senza fondo quando torniamo giù? Serve, tutto questo sapere, a migliorare questo mondo, o a renderlo enormemente peggiore?

Papa Francesco, mentre era in Mongolia, nel suo discorso alla Ekklesia più piccola e sperduta del mondo, ha citato una figura scomoda per la Chiesa ufficiale, il gesuita, scienziato e teologo Pierre Teilhard de Chardin, che durante tutta la sua vita ha tentato di coniugare la ricerca scientifica, che ha svolto con grande successo nel campo della paleoantropologia, e la fede in un Dio creatore di tutte le cose non animato dagli istinti terreni della ricchezza e del potere. Questa sua tensione spirituale all’interno di un rigore scientifico riconosciuto dalle grandi scuole e accademie di tutto il mondo, dava così fastidio al potere secolare, che il Sant’Uffizio a momenti lo scomunicava. Ma la parabola dello “scienziato credente” ci aiuta molto.

È la storia di cosa potrebbe animare, in antagonismo alla ricchezza e al potere, la voglia di volare in alto con la conoscenza. E che cosa potrebbe garantirci di preoccuparci sempre della “ricaduta” a terra di tutto ciò che scopriamo grazie alla nostra intelligenza. Solo dove manca lo “spirito” può affermarsi l’idea che con il denaro e il potere si possa essere come Dio. In fondo siamo in presenza di due religioni contrapposte: Walter Benjamin definiva il capitalismo “una religione di puro culto, senza dogma”, alla quale si aggiunge oggi la nuova gnosi transumanista che opera sempre separando dualisticamente corpo e anima, per disprezzo della creazione.

Il tentativo di Pierre Teilhard de Chardin era separare quel connubio tra conoscenza e capitalismo che si risolve nella costruzione del Regno del Dio denaro, un regno qui e ora, della proprietà privata, della ricchezza materiale e della disincarnazione, per aprire la strada ad una scienza della creazione fondata sulla ricerca della potenza della trascendenza, di una fede per un Dio che è un mondo nuovo e un uomo nuovo. Allo stesso tempo, il gesuita scienziato, agiva un cristianesimo diverso, dove la spiritualità potesse coniugarsi con la natura materiale del mondo, senza per questo diventare anch’essa “mondana” e corrompersi in una accettazione del mondo per quello che è.

Ovvero una spiritualità per quell’essere umano che, anima e corpo insieme, deve sempre lottare e salire con il cuore, arrampicarsi e conoscere con la fatica della carne, ascendere con lo spirito di verità, sulla montagna trasformativa delle Beatitudini, anche a corso del rischio della croce. In fondo, come scriveva ancora Benjamin, il capitalismo è “il parassita del cristianesimo”. E i parassiti, per questioni di igiene mentale, vanno combattuti.

9 Settembre 2023

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