La testimonianza
Misure interdittive antimafia, i sospetti l’unica prova che causano l’ingiusto fallimento delle aziende
L'interdittiva antimafia scatta per la presenza di due dipendenti con precedenti penali: uno ci era stato raccomandato da un carabiniere e l'altro faceva un percorso di risocializzazione dei detenuti
La nostra azienda è nata alla Spezia nel 1932 ed è stata colpita a morte il 31 ottobre 2019. La chiamano “misura interdittiva antimafia”. Per il tuo bene, per prevenire il contagio del male assoluto, la Mafia, ti possono anche uccidere. Nel nostro caso, la Questura e la Prefettura avevano presunto l’infiltrazione mafiosa dalla presenza di due dipendenti con precedenti penali. Secondo la loro geniale intuizione queste persone erano state inviate dalla camorra per impadronirsi della nostra attività. In realtà, erano state, una, raccomandata da un carabiniere del nucleo investigativo e, l’altra, arrivata grazie all’adesione della nostra azienda a un percorso di risocializzazione dei detenuti e su segnalazione della Casa Circondariale della Spezia con il beneplacito del Magistrato di Sorveglianza.
Il procedimento è stato impugnato al Tar e al Consiglio di Stato che, senza nemmeno considerare i ricorsi, ma solo sulla base della regola non scritta del “più probabile che non”, li ha rigettati, sottolineando anche che “con tanta brava gente che è senza lavoro, non era necessario assumere un detenuto”, calpestando l’articolo 27 della Costituzione. Oltretutto, queste persone, all’emissione dell’interdittiva, non facevano più parte dell’organico: uno già da settembre 2017 e l’altro da gennaio 2019. Ci hanno pure contestato di aver lavorato con quattro aziende sospettate di aver avuto rapporti con persone “controindicate”, ma con procedimento a loro carico archiviato o prosciolte e giustamente iscritte alla white list delle varie Prefetture italiane che gli consente di lavorare con la pubblica amministrazione.
A nulla è servito il ricorso in Cassazione, dove è stata evidenziata la commissione del reato di associazione a delinquere, reato che a noi non è mai stato contestato. Attualmente, dopo tre anni e mezzo dalla prima denuncia pubblica tramite Nessuno tocchi Caino, si sta verificando ciò che noi avevamo previsto: il fallimento delle nostre aziende costruite con l’onesto lavoro di quattro generazioni di imprenditori, con una figlia che sarebbe stata la prima donna alla guida della Società dopo tre generazioni di uomini. È scandaloso che una misura con effetti così devastanti possa essere emessa a discrezione del Prefetto in seguito a indagini eseguite da organi di Polizia e senza alcun confronto tra le parti, in base a valutazioni infondate e contraddittorie che portano alla distruzione di imprese sane e persone oneste che le hanno create. È sconcertante che sia il Tar sia il Consiglio di Stato si siano spinti a una valutazione anticipata di responsabilità quando queste, semmai, dipendono da future valutazioni che spettano al Giudice penale.
Questo pre-giudizio nei nostri confronti ha condizionato l’intero procedimento. Principi e regole basilari del Diritto sono stati violati: presunzione di non colpevolezza, giusto processo, parità delle armi tra le parti in causa, rispetto della proprietà privata, della vita sociale e familiare. E pure della libertà di circolazione, perché, al titolare è stata applicata anche una misura di prevenzione personale per diciotto mesi che ha avuto effetti deleteri sia sulla persona fisica che giuridica. Non tutti sanno che le imprese e le persone che vengono colpite da provvedimenti così brutali, se si potranno, forse, anche fisicamente rialzare, rimarranno delle anime morte che camminano e che vivono una vita ai margini della Società. Persone a cui è stata tolta l’azienda, il lavoro, la dignità.
Calpestate da leggi ignobili e ancor peggio applicate in nome di una lotta alla Mafia solo di facciata. La nostra impresa, come altre decine di migliaia in Italia che hanno subito la stessa sorte, non sono state nemmeno sfiorate dal fenomeno mafioso. Ciò nonostante, sono state annichilite con una violenza al pari di un’arma di distruzione di massa da chi dovrebbe tutelarle. Attualmente siamo inermi di fronte a tanta devastazione in attesa della liquidazione giudiziale delle nostre amate aziende senza poterci difendere, mentre ci viene strappato il frutto del nostro lavoro, magari a vantaggio di altre aziende competitrici che si trovano con un concorrente in meno sul mercato e con beni aziendali rilevabili all’asta a prezzi irrisori.
Nella disgrazia abbiamo avuto la fortuna di venire in contatto con Nessuno tocchi Caino che ha preso a cuore la nostra vicenda e ci ha motivato a presentare ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, grazie alla collaborazione di avvocati eccellenti, è stato dichiarato ricevibile. Ci rimane la speranza che, a seguito di tanti ricorsi alla Cedu, finalmente ci si renda conto che in Italia esiste un sistema di prevenzione che sarà sicuramente necessario per la lotta alla Mafia ma che ha bisogno di correttivi urgenti per evitare che imprese sane che rappresentano la ricchezza del grano del Paese siano mischiate indiscriminatamente con la miseria della gramigna criminale.