Centrodestra in alto mare
Silurato su migranti e autonomia, Salvini manda Meloni a quel Paese: “Vedremo i risultati”
La premier affida a Mantovano la cabina di regia sugli sbarchi ed esclude il leader leghista indispettito: “Ora vedremo quali risultati...”
Politica - di David Romoli
L’immigrazione? Se ne occupa Alfredo Mantovano, l’uomo forte di palazzo Chigi messo dalla premier alla guida della cabina di regia che dovrebbe tirare fuori il governo dal grosso guaio degli arrivi fuori controllo. Salvini, l’ex ministro degli Interni che sul contrasto a muso duro all’immigrazione aveva costruito un’effimera fortuna, invece non c’è.
È il ministro delle Infrastrutture, la cosa non lo riguarda, anche se in realtà da vicepremier ne avrebbe facoltà. Tanto che la Lega, per dissimulare l’imbarazzo, fa sapere che il vicepremier sarà costantemente presente, da “invitato” al tavolo. Ma sembra intenzionato a non partecipare. Certo, avrà indirettamente voce in capitolo grazie al suo ex capo di gabinetto e leghista in pectore che dirige il Viminale, Matteo Piantedosi, ma non è la stessa cosa. Soprattutto perché affidare il difficile compito a Mantovano, di fatto un commissario all’immigrazione, significa mettere in campo una figura non influenzabile dagli strepiti del leghista. Si capisce lo sbotto d’ira del vicepremier che avrebbe sibilato un eloquente “Vedremo i risultati”.
La congiuntura, per l’ex “Capitano”, potrebbe essere anche più nefasta. In area palazzo Chigi circolano voci sibilline, a mezza bocca e dunque tutte da verificare, secondo cui la premier starebbe pensando a un cambio radicale di strategia sul fronte più identitario che ci sia per la destra. Per lei contano solo i risultati e quelli della linea sin qui seguita sono disastrosi, tanto da spaventarla e farle temere una ricaduta negativa secca in termini di consenso. Per questo ha mandato in panchina i ministri e affidato la faccenda al sottosegretario e ai servizi segreti, sul controllo dei quali proprio l’immancabile Mantovano ha la delega. Ma presto potrebbe spingersi oltre, anche perché in quella direzione tira, esponendosi apertamente come forse mai prima, il presidente della Repubblica.
Lo smacco, cocente, arriva dopo una serie di colpi che hanno fatto di Salvini il leader più in difficoltà che ci sia oggi a destra. L’elenco delle sue richieste per la legge di bilancio era ed è lungo ma lo è anche la lista dei no a quelle richieste. Vorrebbe passi avanti nello smantellamento della Fornero, in concreto un accenno di quota 41 limitata al contributivo. Dovrà accontentarsi della conferma di quota 103 e anche quella per il rotto della cuffia. Mira ad allargare la Flat Tax ma il suo numero 2 e ministro dell’Economia, Giorgetti, dubita che gli scarsi fondi a disposizione lo permettano. Insiste per tornare al draghiano tetto sulle accise, ma con le casse vuote e l’incubo del risorgente patto di stabilità il solito Giorgetti non può perdere i 7 miliardi che costerebbe la misura.
Qualcosina forse ci scapperà ma poca roba. Stenta a decollare anche il faraonico sogno del Ponte sullo Stretto. Tra i desiderata della Lega c’è anche l’aumento di fondi per la grandissima opera ma il problema è lo stesso di sempre: la coperta è già cortissima così. Il problema non riguarda questa o quella voce di spesa ma l’impostazione di fondo. Giorgetti e la premier hanno scelto, in completo accordo, di mettere al primo posto, sempre e comunque, la stabilità dei conti pubblici. Il rigore fa premio su tutto e di conseguenza le promesse della campagna elettorale, incompatibili con la via austera imboccata da premier e ministro dell’Economia, diventano chimere. Ma il capofila di questa strategia non è un alleato qualsiasi: è il numero due del partito di Salvini e quindi anche trovare riparo nella polemica interna, come se si trattasse di un Tajani qualsiasi, risulta proibitivo.
Non è affatto detto che la lista nera si fermi qui. Il bastione di Salvini e di una Lega tornata a essere solo nordica è l’autonomia differenziata. Non si tratta però dell’imprendibile rocca di Gibilterra. Gli emendamenti fioccano e molti sono firmati dai partiti fratelli, Fi e soprattutto FdI. Calderoli, padre della legge, fa i salti mortali per negarlo ma la realtà è che i tricolori quella legge la detestano, gli azzurri pure, e nessuno ha intenzione di farla arrivare in porto senza modifiche profonde. Lo scoglio principale sono i Lep, i Livelli di prestazione essenziale. Senza di loro l’autonomia non decollerà e quelli costano e costano tantissimo, secondo alcuni calcoli fino a 100 miliardi. Stima probabilmente esagerata ma non di moltissimo.
“Ma chi l’ha detto? I Lep non sono ancora stati definiti e alla fine si potrebbe addirittura risparmiare”, replica Calderoli. Sulla carta ha ragione ma con Lep definiti al ribasso verrebbe meno il requisito fondamentale di uno standard minimo accettabile su tutto il territorio nazionale. Un po’ lo ammette lo stesso Calderoli: “Se poi dovessero costare di più le leggi di bilancio provvederanno a finanziarlo”. Peccato che, nello stato in cui si trovano i conti pubblici, quel finanziamento sia un sogno. Per l’anno prossimo la premier ha deciso, tanto per indicare la via, di non stanziare un euro.
Nell’intervista pubblicata ieri dal Sole-24 Ore Giorgia Meloni ha chiarito senza complimenti che nel governo decide lei. Ha cestinato senza perdere tempo tutte le richieste di Tajani, dalla frenata sulla tassa per gli extraprofitti delle banche alla privatizzazione dei porti. Ha specificato che la decisione sulla tassa la ha presa lei senza avvertire il vicepremier azzurro perché “quando si interviene in queste materie bisogna farlo e basta”. Parlava a forzista perché anche leghista intendesse e in fondo se c’è un’incognita nella stabilità di governo è proprio quanto a lungo Salvini riuscirà a reggere un governo in cui di fatto è costantemente messo all’angolo.