Voci di palazzo e nomine
Altra sberla di Meloni a Salvini: per la Bce indicato il draghiano Franco e non Cipollone
Il leader del Carroccio puntava alla nomina di Cipollone ma a sorpresa, anche il suo vice Giorgetti ha indicato l’ex ministro Franco vicino a Draghi
Politica - di David Romoli
“Io plaudo al ministro Giorgetti”: si può facilmente indovinare quanto piacere tanto elogio abbia fatto a Matteo Salvini, dal momento che il plauso proveniva dalla nemica numero uno del Carroccio, Elsa Fornero, ex ministra e madre della riforma delle pensioni più vituperata in via Bellerio. Prima di plaudire, peraltro, la professoressa si era lanciata in una critica invece senza appello rivolta proprio contro Salvini. La contrapposizione tra i due principali esponenti della Lega era pertanto esplicita.
È probabile che Fornero fosse perfettamente consapevole di quanto le sue lodi sarebbero suonate sgradite e scomode anche per lo stesso Giorgetti e che nella scelta di felicitarsi pubblicamente con le politiche accorte del numero due del Carroccio ci fosse un congruo pizzico di malizia. Fatto sta, però, che il discorso, malizia o non malizia, filava eccome. Se c’è oggi un’anima del governo che finisce sempre per scontentare il capo leghista è incarnata molto più dal suo numero due che non dal rivale da copione Antonio Tajani, che in fondo si limita a fare la parte che nella coalizione gli spetta. Con Giorgetti è vero l’opposto: lo si trova sempre all’opposto di quel che ci si immaginerebbe in base all’appartenenza.
Si prenda ad esempio la sedia lasciata vacante nel board di Bce da Fabio Panetta, che dal primo novembre sarà governatore di Bankitalia. Non è sicuro che il posto nel Comitato esecutivo della Bce tocchi di nuovo all’Italia, però è molto probabile dal momento che Panetta, al momento della nomina alla guida di Bankitalia, si era insediato da poco. La postazione sembrava quasi ufficialmente destinata a Piero Cipollone, vicedirettore generale di Bankitalia, indicato dallo stesso Panetta con il silenzioso assenso della premier.
Ufficialmente Salvini si proclamava disinteressato ma le voci dal palazzo dicono che invece fosse anche lui favorevole all’indicazione di Cipollone. A sorpresa, due giorni fa, si è messo di mezzo proprio Giorgetti, sponsorizzando invece l’ex ministro dell’Economia Daniele Franco, destinato a uscire sconfitto dalla sfida per la presidenza della Bei, Banca europea degli investimenti, posto in realtà più ambito per la quantità esorbitante di prestiti che eroga. Bocciare la candidatura di un banchiere che era vicinissimo a Mario Draghi è più o meno impossibile, dunque è molto probabile, pur se non certo, che il governo italiano indicherà Franco e nessuno riesce a dire con certezza se con soddisfazione o con scorno sia della premier che del leader leghista.
Di fatto, comunque, la nomina di Franco completerebbe un gruppo di mischia draghiano a dir poco impressionante: lo stesso Giorgetti, che deve la nomina alla guida del Mef soprattutto agli ottimi rapporti con l’ex premier ed ex presidente della Bce; Panetta a Bankitalia; il generale Figliuolo come responsabile di tutte le emergenze; Roberto Cingolani come consigliere del governo per l’energia e ad di Leonardo. Poco importa indovinare se Draghi abbia davvero deciso di fare in futuro solo il nonno o se non sia invece destinato a occupare di nuovo postazioni più che eminenti nella politica italiana: comunque la cultura del gruppo da cui dipende la politica economica del Paese è marcato a fondo da una cultura politico-economica che è quella di Draghi.
Quella cultura è stata fatta propria nell’essenza anche da Meloni che del resto, pur se unica leader d’opposizione, era notoriamente molto stimata dal Draghi premier. Ma è anche l’impostazione di fondo che taglia puntualmente la strada a Salvini. Le riforme promesse e invocate dal vicepremier leghista sono del tutto incompatibili con la scelta di adottare una politica economica più vicina all’austerità che non al rigore. Il governo non mira solo a dimostrare la propria affidabilità rispetto alle paure della vigilia ma anche a provare di essere più “responsabile” e “serio”, dunque più austero, di tutti i governi politici precedenti.
Il risultato è un no secco di Giorgetti agli interventi drastici sulle pensioni richiesti da Salvini, ma anche alla manica larga in materia di ristori alle fasce di popolazione più povere. Persino sull’immigrazione il passaggio del ministro dell’Economia sull’impossibilità di varare riforme delle pensioni senza una drastica ripresa della natalità è una sconfessione della visione salviniana perché senza l’immigrazione emigrazione a parte non è possibile recuperare in tempi brevi il tasso di natalità in picchiata.
Il quadro che ne emerge pone però due interrogativi dai quali dipenderanno in futuro le sorti del governo: fino a che punto gli elettori di destra accetteranno una politica economica opposta a quanto promesso non solo in campagna elettorale ma per decenni e fino a che punto la divaricazione tra Salvini e Giorgetti potrà proseguire senza sfociare in scontro aperto.