I dossier 'problematici'
Guerriglia tra alleati e solita storia, la manovra del governo Meloni è tutta un “vorrei ma non posso”
Dalle accise al salario minimo, il governo si ritrova dopo la pausa estiva a corto di idee. Salvini sbraita, ma di soluzioni (e relative coperture) per ora neanche l’ombra
Politica - di David Romoli
«Dobbiamo tenere i piedi ben piantati a terra. Le risorse disponibili devono essere usate con la massima attenzione». Giorgia Meloni apre così. Di fronte al primo cdm dopo la pausa estiva, il percorso della legge di bilancio. Chiede di “tagliare sprechi e inefficienze” ma precisa che non si tratta di una semplice spending review: i tagli servono a “imprimere quel cambiamento che ci è stato chiesto: se ci sono misure che non condividiamo politicamente, non vanno più finanziate”.
Quanto alla manovra, la premier anticipa solo la conferma del cuneo fiscale e le misure per le famiglie e la natalità ma conclude anche annunciando la decisione di andare avanti molto rapidamente su presidenzialismo e autonomia differenziata. Alla cronaca dedica un passaggio specifico sugli stupri di Caivano e di Palermo. Promette di “bonificare” l’area del parco Verde e annuncia che sarà presto a Caivano “non per una visita o peggio una passerella ma per offrire sicurezza alla popolazione”.
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Quello che attende il governo non è un percorso facile. C’è la legge di bilancio, con le coperture che latitano e i due vicepremier, Salvini e Tajani, che si azzuffano sia sul dove trovarle che sulla destinazione. Ci sono le accise, e sono una croce perché non tornare al calmiere deciso a suo tempo da Draghi e poi cancellato dal governo Meloni diventa di rincaro in rincaro più difficile, però sborsare 7 mld, tanto infatti costava il tetto sulle accise, con i sin troppo noti chiari di luna è praticamente impossibile anche se la Lega insiste. Ci sono gli sbarchi e gli amministratori che non sanno più come fare per l’accoglienza, con il dl Cutro che non ha risolto niente ma in compenso ha peggiorato molto. Insomma il governo riparte dopo la pausa estiva strangolato dai dossier “problematici”, per usare un eufemismo e nel cdm di ieri pomeriggio la tensione si percepiva a pelle anche se si è trattato di una ripartenza soffice, senza l’obbligo di decidere su nessuno di questi indistricabili nodi.
C’è il salario minimo, o meglio la proposta alternativa contro il lavoro povero promessa da Giorgia Meloni entro settembre, ed è un’altra strada in salita. Sul tavolo però c’era anche un capitolo meno vistoso ma altrettanto rilevante e arrivato invece al momento della scelta: il ritorno dello Stato in Tim. La aveva privatizzata Prodi, alla fine degli anni 90. Aveva provato a recuperarla lo stesso Prodi, qualche anno dopo, e non c’era riuscito. Con un indebitamento superiore a 26 mld il momento di rientrare in gioco è questo e nel governo si sono fronteggiate due opzioni: quella del ministro Urso, che puntavano a rendere Tim di nuovo completamente pubblica, e quella molto più articolata di Giorgetti, che la ha spuntata. Il Tesoro entrerà in Netco, società nella quale confluirà Tim, con una quota del 20% in modo da garantirsi un nucleo di controllo azionario sulla società.
Il grosso delle azioni lo acquisterà, in base a un accordo già stretto, la statunitense Kkr, che sborserà 22 mld. Il governo eserciterà di certo la Golden Power per ottenere da Kkr una serie di garanzie, in particolare sulla difesa dei 19mila occupati. L’ultimo scoglio è Vivendi, attualmente azionista di maggioranza, che non si accontenta dei 22 mld pattuiti dagli americani e insiste per arrivare a 30. Pur con tutti questi scogli, il rientro dello Stato in Tim è ormai comunque garantito, sia pur nella formula soft imposta dal ministro dell’Economia, e si tratta di una sterzata di enorme importanza. Che però rinvia per alcuni versi a quella giungla di dossier economici nella quale il governo procede a stento anche per le innumerevoli divisioni nella maggioranza. Quel 20% di azioni Tim, che dovrebbe costare tra i 2 e i 3 mld, dovrebbe essere pagato con i proventi della tassa sugli extraprofitti delle banche.
Ma Fi martella per rivedere quella già dimezzata norma salvando dal prelievo le “banche di prossimità”, cioè gli istituti più piccoli e mercanteggia sui profitti esteri. Non si esclude l’eventualità di trasformare la tassa in prestito da restituire: insomma su quei 2-3 mld non v’è certezza alcuna. I due alleati di FdI, i leghisti e gli azzurri, sono impegnati già da oltre una settimana in una guerriglia mediatica sulla legge di bilancio, coperture e destinazioni: Tajani vuole portare almeno da 600 a 700 euro le pensioni minime, e per questo è più che disposto a rinunciare a qualsivolgia intervento sull’età pensionabile, cavallo di battaglia degli alleati del Carroccio. “Chi trova i soldi decide”, ironizzava giorni fa il capogruppo FdI Foti e Tajani lo ha preso in parola: “Provatizzazioni”.
Lo stop dell’eterno rivale Salvini è arrivato subito: privatizzare i porti significherebbe mettere asset strategici nelle mani della Cina. “Si fa confusione tra la gestione dei servizi e le strutture in sé: mica diciamo di vendere i porti ma di rendere più efficiente il funzionamento”, replica il portavoce di Fi Nevi. Sempre in materia di coperture, il viceministro Leo mira a raggranellare qualche mld disboscando le detrazioni fiscale, ma qui lo scontro rischia di essere tra Fi, pochissimo convinta da un aumento di tasse mascherato, e non è affatto escluso che sulle accise si scateni un braccio di ferro tra la stessa FdI e la Lega. Insomma, la partita della legge di bilancio è al prologo, inizierà davvero solo con l’incontro tra governo e gruppi della maggioranza della settimana prossima. Ma se il buon giorno si vede dal mattino…