La tratta dei bambini
Schiavizziamoli e traffichiamoli casa loro: l’indifferenza sulla tratta dei migranti bambini
Quei bimbi fuggono da guerre e stenti ma anche dal rischio di finire schiavi. La caccia “universale” ai trafficanti si concentra sugli scafi sti mentre si lascia correre su quelli che di quei bambini fanno commercio nei paesi di origine
Cronaca - di Iuri Maria Prado
Ma i bambini migranti che arrivano in Europa e qui da noi, i bambini che sopravvivono, se sopravvivono, alla fame e alla sete nei viaggi in mare o per le montagne e attraverso i boschi, e spesso sono soli, “non accompagnati”, secondo il gergo edulcorante delle registrazioni burocratiche, da che cosa scappano? Banalmente (ma già basterebbe) si immagina che scappino da situazioni di miseria irrimediabile o di guerra, e di quelli che arrivano soli si immagina altrettanto banalmente che siano orfani, o spinti al viaggio da genitori che non possono seguirli e si affidano alla speranza di una vita migliore almeno per i figli.
Si immagina bene, immaginando così: ma non si immagina tutto. Perché in realtà quei bambini fuggono anche da un’avversità meno equanime della fame e da una pratica meno indiscriminata della guerra, cose mortifere che prendono un po’ tutti. Fuggono spesso da una consuetudine che li riguarda in modo dedicato: la tratta dei bambini. Si discute di molte decine di migliaia di minorenni fatti oggetto, proprio nei Paesi di origine, di un traffico che li smista nei più diversi ambiti del lavoro forzato: dall’agricoltura alla miniera, dal lavoro domestico all’accattonaggio, dal facchinaggio alla prostituzione.
Il tutto, naturalmente, in una contabilità rivelatrice della selezione classista – di poverissimi tra i già poveri – che comanda quel commercio: i bambini con un livello di istruzione basso o nullo sono infatti esposti a un rischio di essere “trafficati” venti volte maggiore rispetto a quelli che frequentano scuole di livello superiore, mentre i bambini nati in Paesi a più basso reddito diventano merce con una frequenza cinque volte maggiore rispetto a quelli nati in Paesi a reddito (relativamente) più elevato.
Il fatto prevedibile e intuitivo che il grosso della tratta dei bambini avvenga nei Paesi di provenienza non scagiona l’osservatore. Ovvio, si dice, che quelle pratiche siano più frequenti tra i diseredati e dove la tutela dell’infanzia è poco o niente garantita. Certo, ovvio. Com’è ovvio, tuttavia, che, fuggendo, quei bambini fuggono dall’ovvietà trascurata di quest’altro pericolo: non soltanto il pericolo di morte per fame o per guerra, ma quello di essere commerciati e ridotti in schiavitù.
Si noti che questa circostanza diciamo così suppletiva rispetto alla generale tragedia della migrazione, questo sottrarsi dell’infanzia migrante non semplicemente a una vita di stenti o esposta alla devastazione delle guerre, ma appunto al rischio di finire schiava, obbligherebbe a rivedere con giudizio anche più impietoso la retorica che vuole riassunto il problema nella responsabilità dei “trafficanti di esseri umani”, degli “scafisti”, insomma quelli che – certamente guadagnandoci, e approfittando ignobilmente di una situazione di drammatico bisogno – portano i migranti qui da noi. Saranno spregevoli, ma portandoli qui da noi sottraggono materia a quelli che ne fanno commercio là da loro.
E la caccia “universale” ai cosiddetti trafficanti è abbastanza svuotata di verità, diciamo così, se si concentra sui timonieri delle carrette del mare mentre lascia correre la tratta che avviene tranquillamente “a casa loro”: cioè, secondo ciò che racconta quella retorica, dove dovremmo aiutarli. La realtà è che ridurre il problema alla responsabilità dei cosiddetti scafisti, e le politiche sulle migrazioni al pattugliamento “lungo tutto il globo terracqueo”, serve a dare un altro nome alla caccia vera: che non è ai trafficanti ma ai migranti.
Tra i quali i tanti bambini che, spesso soli, provano a venire qui da noi perché da dove vengono c’è la tratta dei bambini. E varrà la pena di ricordare le parole inqualificabili di un ministro a margine dei sacchi di plastica allineati su una spiaggia calabrese: che si è brutti genitori, genitori con inferma dotazione morale, se si affida un figlio ai pericoli del viaggio migratorio. Si provi a pensare che non c’era noncuranza o inettitudine genitoriale nel padre o nella madre che affidava il figlio al rischio del viaggio per sottrarlo alla presa dei rapitori di bambini, allo sfruttamento selvaggio, alla trasformazione in una cosa da lavoro o da stupro. Ci si pensi, al prossimo carico residuo.