Parla lo storico portavoce
“Ecco cos’è il piano Mattei”, intervista a Riccardo Noury
«Sovvenzioniamo per non far partire i profughi proprio coloro che li costringono a partire. Pensiamo al caso della Tunisia: Saied ha le mani sporche di sangue, ma Meloni ne ha fatto un nostro partner e fidato alleato»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Dai morti nel Mediterraneo ai suicidi in carcere. Continua senza soluzione di continuità la stagione dei diritti umani negati. L’Unità ne parla con Riccardo Noury, storico portavoce di Amnesty International Italia.
Mediterraneo, il “mare della morte”. Le stragi di migranti si susseguono senza soluzione di continuità. Ma l’Europa e l’Italia continuano sulla linea dei “memorandum fotocopia”: dalla Libia alla Tunisia, e prim’ancora la Turchia.
Questi accordi, col prezzo spaventoso in termini di vite umane che fa parte degli allegati non scritti ma preventivati, sono frutto di quella che è un’autentica ossessione della politica interna (che domina quella estera) dell’Unione europea: fermare le partenze di migranti e richiedenti asilo verso l’Europa. A qualunque costo, purché si trovi qualcuno cui affidare, pagando, quel compito. A quegli stati (a volte a pezzi di Stati se non a veri e propri gruppi criminali, come nel caso della Libia) chiediamo di essere la nostra polizia di frontiera. Facendo finta di ignorare, giacché è ampiamente noto, che paghiamo per non far partire proprio coloro che costringono a partire. Pensiamo al caso della Tunisia…
Appunto… L’Italia e l’Europa hanno elevato il presidente della Tunisia, Kais Saied, a interlocutore privilegiato nella lotta all’immigrazione clandestina. Dall’osservatorio di Amnesty International, quali sono i tratti caratterizzanti del regime tunisino?
Gli ultimi due anni sono stati caratterizzati da un continuo peggioramento della situazione dei diritti umani. Da quando, nel luglio 2021, il presidente Kais Saied ha assunto pieni poteri, la magistratura ha via via perso la sua indipendenza, persone che avevano osato criticare la svolta repressiva sono finite in carcere per accuse inventate (dalla “cospirazione contro la sicurezza dello stato” alla “diffusione di notizie false”), il giornalismo indipendente è sotto attacco ed è stata varata una nuova Costituzione che rappresenta un passo indietro rispetto a quella del 2014. Fine della storia di successo delle rivolte del 2011. Poi, come se non bastasse, all’inizio di quest’anno Saied ha inaugurato una narrazione xenofoba, intrisa di discorsi d’odio. Il 21 febbraio, durante una riunione del Consiglio per la sicurezza nazionale, ha detto che “orde di migranti irregolari provenienti dall’Africa subsahariana” erano arrivate in Tunisia, “con la violenza, i crimini e i comportamenti inaccettabili che ne sono derivati”: una situazione “innaturale”, parte di “un disegno criminale per cambiare la composizione demografica” e fare della Tunisia “un altro stato africano che non appartiene più al mondo arabo e islamico”. Ne è derivata un’ondata di violenza contro migranti e richiedenti asilo dell’Africa subsahariana: arresti e sgomberi forzati, espulsioni, aggressioni in pieno giorno da parte di folle di odiatori fino alle ultime settimane, quando centinaia e centinaia di uomini, donne e bambini sono stati abbandonati in pieno deserto.
Si continuano a evocare “Piani Mattei” per l’Africa e a incensare conferenze come quella svoltasi qualche settimana fa a Roma. E i diritti umani?
Sono soltanto denominazioni altisonanti per imbellire l’ossessione di cui parlavo prima. Per i diritti umani non c’è spazio, ovviamente, salvo per le loro violazioni. Se poi fosse reale l’intenzione di lavorare seriamente in favore dello sviluppo dell’Africa, contribuendo a creare migliori condizioni di vita favorendo pace e lavoro, impegnandosi davvero a risolvere i conflitti e a porre freno al cambiamento climatico, non basterebbero certo i soldi. Occorrerebbe mutare radicalmente i rapporti con molti dei leader che hanno il potere in quella parte del Sud del mondo, cessare politiche predatorie e neocoloniali. E comunque ci vorrebbero anni. La domanda è: “nel frattempo, che si fa?”. Si continuano a piangere lacrime di coccodrillo per gli oltre 2000 migranti morti finora nel 2023, a svuotare il Mediterraneo dalle navi di ricerca e soccorso in mare delle Ong, a imbastire processi nei confronti dei loro equipaggi, a praticare la politica dei “porti lontani” con l’unico risultato di costringere quelle navi a trascorrere il più lungo tempo possibile nel Tirreno, nell’Adriatico e nello Jonio anziché nel Canale di Sicilia?
Nel breve e medio periodo le soluzioni sono altre e a portata di mano. Si chiamano percorsi legali e sicuri, ricongiungimenti familiari, visti d’ingresso, corridoi ed evacuazioni di natura umanitaria. Nel mondo sono in corso 55 conflitti. Cinquantaquattro dei quali “ignorati”. Da tutti, non da Amnesty International. Salvo poi blindare le frontiere per fronteggiare la fuga di quanti da quelle guerre fuggono.
In questi giorni abbiamo ricordato il secondo anniversario della seconda conquista del potere, in Afghanistan, da parte dei talebani. Che sono quelli di prima, del periodo 1996-2001: turbanti, barbe lunghe, mitra, fruste e Corano, nella loro edizione. Dopo le evacuazioni della fine di agosto del 2021, la comunità internazionale ha girato le spalle alle centinaia di migliaia di afgane e afgani in pericolo. Faccio un esempio: nell’ottobre 2022 la Germania ha avviato un programma di ammissioni umanitarie che prevedeva l’ingresso di 1000 afgani al mese. Da allora fino a giugno 2023, nessun afgano è mai arrivato in territorio tedesco: quelli cui era stato detto di andare in Pakistan per ottenere il visto sono ancora lì. Quanto accaduto in Sudan, dove è in corso da oltre 100 giorni un conflitto tra esercito e paramilitari per il controllo del territorio e delle risorse, è ancora più assurdo. Tante persone sono bloccate all’interno del paese in quanto prive di documenti. Il motivo? I loro passaporti sono rimasti dentro le ambasciate europee – evacuate in fretta e furia – cui avevano chiesto un “visto Schengen” quando era iniziata la guerra. Poi ci sono i conflitti che si giudicano terminati prima del tempo, e dopo aver chiuso un occhio si chiude anche l’altro. Molte delle oltre 600 vittime del terribile naufragio di giugno nelle acque greche provenivano da Deraa, la città della Siria dove nella primavera 2011 scoppiò la rivolta. Dodici anni dopo, da quei luoghi si continua a fuggire.
Amnesty Italia è stata sempre a fianco di Patrick Zaki, festeggiando, come giusto, la sua ritrovata libertà. Non c’è il rischio che ora l’attenzione mediatica, oltre che politica, sull’Egitto dei diritti umani calpestati, venga meno come la richiesta di verità e giustizia per Giulio Regeni?
Non vorrei che le istituzioni italiane avessero considerato chiuso il “dossier Egitto” col ritorno in piena libertà di Patrick Zaki, peraltro attraverso una grazia e non un’assoluzione. Pochi giorni fa, il 14 agosto, abbiamo ricordato un altro anniversario: il decimo dalla “Tiananmen del Cairo”, il peggiore massacro commesso in un solo giorno nel XXI secolo: oltre 900, ma forse più di 1000 manifestanti uccisi nello sgombero di due tendopoli allestite in altrettante piazze della capitale egiziana, dalla Fratellanza musulmana per protestare contro la deposizione, avvenuta il 3 luglio, del loro presidente Morsi. Da lì è iniziato quello che Amnesty International ha definito “il decennio della vergogna”: decine di migliaia di prigionieri che mai avrebbero dovuto entrare in carcere (cito solo i due più importanti: Alaa Abd el-Fattah e Ahmed Douma), sparizioni e torture, militarizzazione degli spazi di libertà, processi farsa presso i tribunali antiterrorismo, censura online e nei confronti della stampa indipendente, provvedimenti vessatori – come i divieti di viaggio e il congelamento dei conti bancari – nei confronti dei difensori dei diritti umani e delle loro Ong. Quindi, il “dossier Egitto” è tutt’altro che chiuso. Come rimane ovviamente aperta e urgente la necessità che un processo celebrato in Italia, alla presenza degli imputati egiziani, affermi la verità e la giustizia per Giulio Regeni.
Quando si parla di diritti umani negati, si pensa sempre ad altri paesi. Ma il problema riguarda anche ciò che avviene in Italia, nelle carceri ad esempio.
Certo non è l’unico ma questo è un problema storicamente persistente e grave, su cui si è pronunciata anche la giustizia europea rispetto a sovraffollamento e condizioni igienico-sanitarie inadeguate. La cosa ancora più grave, nonostante il tremendo numero di detenuti che si sono tolti la vita – tre, solo la settimana scorsa – è che mai come in questi anni è stata edificata una frontiera – sì, l’ennesima! – tra chi è fuori e chi è dentro. Vi ha contribuito una delle narrazioni in voga di questi tempi: che i diritti non sono innati ma si conquistano comportandosi bene, come bollini di una tessera del supermercato, e si perdono se ci si comporta male. E siccome nelle prigioni ci stanno quelli che “si sono comportati male”, i loro diritti non valgono più.
C’è un altro tema di diritti umani che ha a che fare con le carceri. Molte delle indagini in corso così come le condanne sin qui emesse per il reato di tortura riguardano fatti delittuosi accaduti al loro interno.
Ora, dopo che ci sono voluti quasi 30 anni per vedere finalmente approvata, nel luglio 2017, la legge sul reato di tortura, in parlamento ci sono i numeri per abolirla. Chi per quei 30 anni si è opposto, con motivazioni pretestuose, al reato di tortura ora è pronto ad abrogarlo. Proposte e disegni di legge di Fratelli d’Italia sono pronti e, per quanto riguarda il Senato, già in discussione. Insieme ad Antigone e A Buon Diritto, Amnesty International farà il massimo perché non si torni così gravemente indietro.