L'avvocatura e i giudici
L’avvocato è controparte, non deve compiacere i giudici
Il Cnf ritiene inammissibile e passibile di censura che un avvocato, in calce a una propria istanza, scriva: “Si confida nella Giustizia (se ne esiste ancora un barlume!)”
Giustizia - di Iuri Maria Prado
Non si creda che l’avvocatura sia estranea al degrado della giustizia italiana. Spesso vi assiste, inerte. A volte vi partecipa e lo determina, complice. E questo si deve anche, forse soprattutto, a un maledetto pregiudizio, che profondamente impregna la cultura (l’incultura) di tanti operatori di giustizia: avvocati compresi, appunto.
Essi credono – l’ho sentito ripetere un mare di volte da eminenti e accreditatissimi professionisti – che il loro ufficio consista nel “contribuire” all’attività giurisdizionale, in buona sostanza in una collaborazione a scrivere la giustizia emessa in nome del popolo italiano. Micidiale fraintendimento, e gravido di formidabili aberrazioni. Funzione dell’avvocato, infatti, non è (non sarebbe) collaborare con la giustizia che giudica, o a cui fa appello, il proprio assistito: funzione dell’avvocato è invece (sarebbe) porsi sempre e per definizione come “controparte” di quella giustizia.
Perché si tratta sempre e in ogni caso del potere pubblico con cui l’avvocato può tutt’al più confrontarsi, interloquire, coltivare contraddittorio, ma non mai confondersi. Corollario di questa esigenza è che l’avvocato si astenga in modo intransigente dall’assumere verso il potere giudiziario i comportamenti di compiacenza curtense invece invalsi presso molti, e in modo vergognosamente disinibito presso le rappresentanze dell’avvocatura corporata. Ecco perché non sorprende – ma comunque dispiace – che il Consiglio Nazionale Forense (cioè “l’organismo apicale istituzionale dell’Avvocatura”: urca), ritenga inammissibile e passibile di censura il fatto che un avvocato, in calce a una propria istanza, scriva questa frase blasfema: “Si confida nella Giustizia (se ne esiste ancora un barlume!)”.
Evidentemente non è chiaro alla corporazione avvocatesca che nessuno, tanto meno l’avvocato, ha il dovere di confidare nella giustizia. Evidentemente non è chiaro alla burocrazia forense che chiunque, compreso l’avvocato, ha tutto il diritto di diffidarne, e di protestare come vuole e dove vuole le ragioni della propria diffidenza. Salvo credere che sia obbligo diffuso, e dunque anche dell’avvocato, dimostrare “rispetto della funzione giudicante” (hanno scritto così in questa decisione del Consiglio Nazionale Forense: hanno scritto così, santa madonna!).
E allora facciamo una lezioncina di diritto liberale alla giustizia dell’avvocatura corporata (ne ha bisogno): quel rispetto si dimostra non contestando il potere del giudice di emettere una decisione, non contestando il fatto storico che una decisione sia stata emessa, non contestando il fatto che la decisione abbia un certo contenuto: ma non si dimostra inchinandosi a baciare la pantofola del potere che fa giustizia; non si dimostra trattando la decisione di giustizia come un monito oracolare; non si dimostra omaggiando il sussiego, la pompa, la supponenza mandarina del funzionario pubblico che si fa forte del potere di giudicare.
Questo avvocato, destinatario dei provvedimenti di sanzione del Consiglio Nazionale Forense, ha poi reagito in modo intemperante a una decisione che non gli piaceva. Ha scritto così: “La circostanza che mi ha fatto girare i coglioni è stata la motivazione del provvedimento”. E questo modo di dire, secondo il giudice disciplinare, si collocherebbe tra quelli che recano “disonore all’Avvocatura e alle Istituzioni forensi in generale”. Per carità, va benissimo. Uniformiamoci a un timorato criterio da collegio confessionale. Ma la corporazione avvocatesca vorrà prendere nota del fatto che a disonorare l’avvocatura (noi la A maiuscola non la usiamo, per decenza) milita piuttosto l’abitudine allo strafalcione, all’italiano da liceale zuccone, all’analfabetismo che spesseggia tra i portatori di impeccabili grisaglie convenuti ai convegni in cui si celebra il “dialogo” tra potere togato e casta giudiziaria.
A svergognare l’avvocatura non è l’avvocato cui girano i coglioni e lo scrive, né la legittima sfiducia verso la “funzione giudicante”, ma la schiena incurva delle burocrazie forensi davanti alla prepotenza della signoria togata. Vediamo di intenderci, dunque. Non abbiamo fiducia nella giustizia, e ci fa girare i coglioni. È chiaro?