Non basta un emendamento
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I media hanno dato grande risalto alla norma che amplia le possibilità di ingresso in Italia per i lavoratori stranieri. Una novità positiva, che dimostra come il governo sia costretto a fare i conti con la realtà, ma che non supera affatto l’impianto irrazionale e ingiusto dell’attuale legge sull’immigrazione
Politica - di Gianfranco Schiavone
L’approvazione dell’emendamento che modifica il T.U. Immigrazione, presentato da Fratelli d’Italia e votato all’unanimità dalla Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati, è stato presentato dalla maggior parte degli organi di stampa come un radicale cambiamento di quell’approccio alla chiusura verso l’immigrazione tradizionalmente cavalcata dall’attuale Esecutivo. È così? In parte lo è e in parte invece non lo è per le ragioni che indicherò di seguito.
Vediamo però prima in cosa consiste la annunciata modifica che con tutta probabilità diventerà presto legge: essa riguarda l’ampliamento della possibilità di ingresso in Italia per “casi particolari”, disciplinato dall’art. 27 del Testo Unico Immigrazione, in deroga alle quote indicate dal decreto flussi, degli stranieri che sono stati “dipendenti, per almeno 12 mesi nell’arco dei 48 mesi antecedenti alla richiesta, di imprese aventi sede in Italia (….) operanti nei paesi extracomunitari, ai fini del loro impiego nelle sedi delle suddette imprese o società presenti nel territorio italiano”. Si tratta di una modifica non irrilevante che consentirà soprattutto alle aziende di medio-grandi dimensioni a ramificazione internazionale di portare in Italia lavoratori già noti all’azienda e che probabilmente spingerà le stesse a realizzare un numero maggiore di percorsi formativi da realizzare all’estero o in parte all’estero in parte in Italia.
Un’apertura dunque c’è perché il Governo sta facendo i conti con la realtà di carenza di manodopera, anche qualificata, in molti settori del mercato del lavoro e l’ideologia deve dunque lasciare il passo alla realtà. Tuttavia, per quanto il nuovo canale di ingresso possa alimentarsi nei prossimi anni, rimane di portata limitata in quanto il lavoratore straniero entrerà in Italia solo per essere impiegato nell’impresa italiana che operava all’estero e di cui è già stato lavoratore. La norma non scioglie in alcun modo il grande nodo irrisolto che segna l’irrazionale ed iniqua normativa vigente in materia di ingressi per lavoro che è rappresentato dall’assenza di un meccanismo che consenta l’incontro, in Italia, tra la domanda delle aziende, soprattutto medie e piccole, e l’offerta di lavoro da parte dei cittadini stranieri.
Nessun datore di lavoro che non svolga parte della sua attività produttiva o commerciale tramite sedi estere, sia che si tratti di un datore italiano o straniero, e che cerca manodopera, assume qualcuno che non ha mai conosciuto (e, spesso, che non abbia già sperimentato in concreto tramite una prova lavorativa) come viene invece ipotizzato dalla programmazione dei flussi che prevede un misterioso incrocio tra la domanda di lavoro in Italia con un’offerta di lavoro fatta da chi vive all’estero.
Come da decenni hanno ricordato tutti gli studi sul campo, ciò che avviene nella realtà in luogo di tale finzione è che l’apertura della quota flussi è nient’altro che la possibilità, ristretta numericamente (quote insufficienti), geograficamente (non tutti i Paesi sono compresi nelle quote) e temporalmente (tutto si consuma in pochi minuti e secondi nel click-day) di assumere uno straniero in condizioni di soggiorno irregolare (o regolare ma con una tipologia di permesso non convertibile, come la domanda di asilo) che è già in Italia ed è già ben noto al datore di lavoro; lo è quasi sempre perché egli è lavoratore in nero dello stesso datore di lavoro che in tal modo mette in atto – nella pratica ma non nella finzione giuridica – una procedura di emersione dal lavoro nero.
Il tutto corredato dagli aspetti grotteschi che da sempre caratterizzano tale finzione, ovvero la necessità che il lavoratore straniero vincitore della agognata quota si rechi nel suo paese di origine (dove invero già doveva trovarsi) per prendere, presso le nostre rappresentanze diplomatiche, il visto di ingresso per lavoro e così arrivare, o meglio ritornare, in Italia e finalmente incontrare quel bizzarro datore di lavoro che in un “contatto” avente natura più mistica che terrena ed economica, l’ha chiamato, incredibilmente proprio lui, a lavorare con sé.
Nulla di questa irrazionale procedura viene intaccato dalla modifica di legge in fase di approvazione perché per attuare ciò che il Governo afferma di volere fare, ovvero l’apertura di effettivi canali di ingresso regolare per lavoro, sarebbe necessario attuare una profonda riforma normativa che modifichi il paradigma di fondo su cui poggia la normativa vigente prevedendo quale misura, non unica ma dirimente – senza la quale, ad avviso di chi scrive, non c’è alcuna riforma reale- l’istituzione di “un permesso di soggiorno temporaneo per ricerca di lavoro, finalizzato a favorire l’inserimento lavorativo di stranieri non comunitari nel sistema produttivo nazionale e a contrastare il fenomeno dell’immigrazione clandestina” come si legge nella proposta di legge di iniziativa popolare del 2017 della Campagna “Ero Straniero” e da allora arenatasi in Parlamento (va segnalato che con encomiabile tenacia analogo testo è stato ripresentato per iniziativa parlamentare anche in questa legislatura).
Dunque arriverebbe in Italia chiunque si svegli un mattino e dica a sé stesso: sai che faccio? Vado in Italia a cercare un lavoro? Ovviamente no, in quanto il visto di ingresso per ricerca di lavoro verrebbe rilasciato solo in caso sussista “la disponibilità in capo al lavoratore straniero di mezzi economici o di altri mezzi di sussistenza idonei per la durata del soggiorno e per l’eventuale ritorno nel Paese di provenienza”. Lo straniero potrebbe non disporre di tali mezzi ma essi potrebbero essere forniti da terzi (reti famigliari o amicali, enti di solidarietà et) che devono “dimostrare di poter effettivamente assicurare allo straniero un alloggio, la copertura dei costi per il sostentamento e l’assistenza sanitaria per la durata del permesso di soggiorno”. Ove concessa l’autorizzazione all’ingresso in Italia “consente di ottenere, previa iscrizione alle liste di collocamento, un permesso di soggiorno per un anno a fini dell’inserimento nel mercato del lavoro”.
Perché prevedere un ingresso per “ricerca di lavoro”, e non solo per lavoro già promesso, rappresenta una riforma così necessaria? Perché corrisponde all’effettiva realtà delle migrazioni internazionali per motivi diversi dalla protezione. Migrare è un progetto di vita che una persona coltiva ed è giusto che per attuarlo vengano richieste dal Paese in cui la persona vuole recarsi, alcune garanzie, che possono essere più o meno stringenti. Ci sarà chi sa già benissimo dove andare, perché di fatto il lavoro gli è stato già promesso e magari da più parti. Ci sarà invece chi cercherà e valuterà diverse opzioni, farà diverse prove ed esperienze; capirà cosa c’è realmente rispetto a ciò che si aspettava e quali sono le condizioni reali che ha trovato. Ed infine ci sarà anche chi fallirà il suo progetto; è inevitabile che possa avvenire anche laddove la persona venga aiutata e sostenuta (fra i sostegni dovrebbe sempre esserci, in caso di rimpatrio volontario, la possibilità di riprovare in un momento successivo con un nuovo progetto migratorio più strutturato).
Solo in questo modo si realizzerebbe un equilibrio tra il doveroso controllo degli ingressi che ogni Stato legittimamente esercita, e il rispetto dell’art. 13 della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo che prevede che “Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese”. L’attuale politica migratoria italiana, con o senza la modifica sopra esaminata, rimane improntata ad un’ottusa chiusura che cercando vanamente di impedire o limitare drasticamente le migrazioni produce l’effetto opposto, ovvero quello in base al quale, non potendo seguire regole e procedure ragionevoli che non ci sono, la migrazione avviene comunque, ma in modo del tutto disordinato consegnando un potere crescente ed inarrestabile, che nessuna indagine giudiziaria riuscirà mai a contenere, ai trafficanti di esseri umani, rimasti unici attori del gioco dopo il nostro ritiro dal campo.
Sarò felice di essere smentito ma non ritengo possibile che le forze politiche che si ispirano, come l’attuale Governo, ad un nazionalismo insieme estremo ed infantile, possano attuare una riforma della norma sull’immigrazione che si fondi sull’equilibrio sopra indicato tra misure di controllo e rispetto del diritto dell’individuo a coltivare ed attuare un progetto migratorio. Possono al più tentare di tappare i buchi qua e là, trovare escamotage temporanei, modificare il linguaggio aggressivo, ma nulla di più. Per la gestione delle migrazioni in Europa nel XXI secolo serve ben altro e più adeguato pensiero politico, che sappiamo dove non sta, mentre invece non sappiamo dove invece sta, perché forse non c’è ancora.