La "chiamata alle armi"

Le sciocchezze di Sandro Ruotolo che invita il Pd alla “guerra civile”

Mentre a Cesena Romano Prodi invitava il Pd a unirsi attorno a un “radicalismo dolce”, il responsabile cultura dem invitava alla “guerra civile” nel partito. Se l’esortazione fosse presa sul serio ci riporterebbe a fasi molto oscure della storia della sinistra

Politica - di Carmine Fotia

27 Luglio 2023 alle 16:00

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Le sciocchezze di Sandro Ruotolo che invita il Pd alla “guerra civile”

Al pari di Michele Prospero che ne ha scritto ieri su queste pagine, anche io sono stato colpito dalla concomitanza tra l’importante discorso tenuto da Romano Prodi a Cesena, alla convention dei riformisti del Pd, che invitava il Pd a unirsi attorno a un “radicalismo dolce”, e le esternazioni di un membro della segreteria del Pd, il responsabile informazione e cultura Sandro Ruotolo, che invitava alla “guerra civile” dentro il partito.

Io penso esattamente il contrario: il Pd non ha certamente bisogno di una guerra civile ma di uscire da una guerra civile a bassa intensità che si combatte al suo interno da quando è nato. Segretari prima osannati e poi massacrati, guerre durissime per il potere senza nessuna vera discussione sulle idee, accordi di vertice tra capi e iscritti ed elettori mai coinvolti nelle scelte. Se torno ancora sul tema è perché siccome in politica il linguaggio è tutto, analizzare le parole dette non è mai inutile. Da un lato parole che hanno a che vedere con la mitezza che però non è affatto rassegnazione o rinuncia al cambiamento (da qui l’apparente ossimoro del “radicalismo dolce”) bensì una visione del cambiamento come rivoluzione molecolare, dal basso, capace di vincere unendo e convincendo. Dall’altro, l’utilizzo così disinvolto del termine guerra, riferito ai conflitti interni del Pd.

A parte il fatto che la natura del conflitto in un partito non può essere la stessa del conflitto con gli avversari, come ha già osservato Michele Prospero, mi aspettavo che la cultura del riformismo, della non violenza e del femminismo avessero definitivamente estirpato dal linguaggio della sinistra quella radice militarista che il terribile e grande novecento le aveva imposto come un’armatura che imprigionava le sue promesse di liberazione umana e addirittura nel corso del secolo le rovesciò nell’incubo di un regime oppressivo.

Me lo aspettavo e me lo aspetto anche di più dopo l’avvento di una leader come Elly Schlein, integralmente post-noventesca. Ha preso in mano un Pd esangue, l’ha rimotivato e mobilitato, ha portato una ventata di freschezza. Ha scelto battaglie popolari e giuste come quella sul salario minimo e finora la minoranza interna l’ha sempre appoggiata. Per questo mi stupisce quella chiamata alle armi. Se l’esortazione alla “guerra civile” fosse presa sul serio le conseguenze sarebbero nefaste e ci ricondurrebbe a fasi molto oscure della storia della sinistra dominate dal settarismo e dalla repressione del dissenso interno. Può darsi che il mio allarme sia esagerato ma in quell’esortazione alla guerra civile si avverte l’eco di una contrapposizione ricorrente nella storia del Movimento Operaio tra una concezione libertaria, mite e umanitaria del socialismo e una settaria, rigida e ideologica.

Della questione si occupò quasi sessant’anni fa un giovane leader che aveva appena conquistato la guida del Partito socialista in Italia: “A molti sembrò che Lenin e Trotsky avevano trovato il metodo giusto per provocare il parto della società socialista: militarizzazione del movimento operaio, guerra di classe, dittatura del partito unico, statizzazione integrale della vita economica”, diceva un giovane Bettino Craxi in un discorso pronunciato il 4 maggio del 1977 a Treviri, in occasione del 30° anniversario della ricostruzione della casa natale di Carlo Marx. Il discorso di Craxi era improntato a liberare il marxismo da quel “comunismo di caserma” che aveva tradito e rovesciato le premesse e le promesse liberatorie dello stesso Marx.

Il leader socialista aveva appena conquistato il Psi e guidava un’offensiva culturale con l’obiettivo di scardinare l’egemonia culturale dei comunisti sulla sinistra italiana, valorizzando correnti minoritarie, liberali e libertarie che erano state schiacciate da quell’egemonia. In quel discorso Craxi ricordava come, dopo il fallimento della Comune di Parigi, gli stessi Marx ed Engels compresero che la tragica sconfitta del primo tentativo di concretizzare la predicazione del Manifesto del Partito comunista del 1848 esortava a un percorso “revisionista” poi proseguito con Kautsky e Bernstein superando una concezione giacobina del socialismo: “Il giacobinismo – diceva Craxi- in effetti è una concezione elitistica, autoritaria e totalitaria della rivoluzione. Affida a una minoranza cosciente e attiva il compito di creare autocraticamente la democrazia sostanziale e la vera libertà, ma di fatto porta alla dittatura totalitaria dei custodi dell’ideologia”.

Il giacobinismo fu dominante nel Pcd’I di Amadeo Bordiga, sconfitto da Antonio Gramsci nel congresso di Lione, rivisse nel Pci con Pietro Secchia e fu sconfitto da Palmiro Togliatti; tornò nella sinistra extraparlamentare degli anni ’70 e degenerò nel partito armato; in anni più recenti, è tornato a esprimersi attraverso il giustizialismo moralista che ha trovato spazio in una sinistra smarrita e cedevole verso l’arrembante populismo. Di tale cedevolezza la rinuncia a una battaglia garantista e l’adesione all’antiparlamentarismo con l’approvazione del selvaggio taglio dei parlamentari voluto dal Conte-Fregoli e subìto dal Pd di Nicola Zingaretti, sono soltanto alcuni esempi.

Ecco perché mi occupo di un episodio in apparenza così marginale e invece secondo me cruciale. La politica, è vero, si deve esprimere con i fatti ma le parole anticipano, raccontano e orientano gli atti che poi produrranno fatti. Agire senza dare la giusta rilevanza alle parole che si usano equivale ad agire alla cieca e andare incontro a sonore sconfitte, come ha spiegato il linguista americano George Lakoff nel suo Non pensare all’elefante, magistrale lezione sull’importanza del linguaggio in politica da cui ne deriva la raccomandazione alla sinistra a scegliere con attenzione le parole-chiave capaci di conquistare la mente ma anche di parlare al cuore dei propri elettori.

La domanda che vorrei fare è, precisamente, cosa vuol dire scatenare “una guerra civile” nel Pd? Contro di chi? Si dice: contro i cacicchi. Peccato che i cacicchi siano sempre e solo quelli degli altri. Per dire guerra a De Luca e pace con Emiliano. Quanto alle correnti: la degenerazione correntizia è un male ma l’assenza di correnti è peggio. Tutti i partiti democratici hanno correnti di pensiero, le ebbe anche il Pci. Se le correnti del Pd sono brutte, sporche e cattive è perché nel Pd circolano poche idee, non perché esistono le correnti. Un altro brutto segnale della deriva giacobina che rischia il Pd è la defenestrazione di Gianni Cuperlo, testa libera e pensante a capo di una piccola corrente, dalla guida della fondazione culturale del partito per sostituirlo con Nicola Zingaretti capo di una forte corrente che ha sostenuto Elly Schlein.

Il problema non è solo rilevante per la dialettica interna al Pd, di cui potrebbe anche importarci poco. Come dimostrano infatti le recenti elezioni spagnole, se la sinistra vuole avere una chance di fermare le destre non può fare a meno di un partito guida che si attesti attorno al 30% e che dunque sia insieme combattivo, attrattivo, inclusivo, attorno a una piattaforma di “radicalismo dolce”: diritti sociali, diritti di libertà, emergenza climatica unendo la radicalità degli obiettivi al pragmatismo del metodo. Da quel 30% il Pd è ancora lontano ma può avvicinarvisi solo se ricompone la frattura che ha consegnato sì una vincitrice, ma anche un partito spaccato a metà come una mela tra un radicalismo più moderno, giovanile e femminile, immateriale, che gioca agevolmente dentro i flussi della comunicazione e un pragmatismo più terragno, legato a reti solide di amministratori e corpi intermedi.

È una divisione che attraversa anche l’elettorato, per cui il dialogo interno serve soprattutto per parlare con pezzi diversi di società e costruire alleanze vincenti. La nuova leader del Pd deve essere libera di decidere e di sbagliare magari, ha tutto il diritto di non essere intralciata nei suoi propositi di rinnovamento ma se vuole lanciare una sfida vera alla destra ha bisogno di una coesione vera che nasca dalla condivisione e dalla convinzione, non di un partito-caserma guidato da un gruppo di neo-giacobini.

I suoi pasdaran incrinano la credibilità della sua leadership ben più della minoranza interna. Di tutto questo Elly Schlein sembra consapevole: “Il Pd è un partito plurale e continuerà ad esserlo. I congressi servono per scegliere la linea politica, non a sopprimere il pluralismo interno. Siamo circondati da partiti personali legati ai leader di turno. Il Pd è l’unico davvero democratico e plurale, è la nostra forza”, ha detto ieri a Carmelo Lopapa su Repubblica.

27 Luglio 2023

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