L'addio a 99 anni

Chi era Luigi Bettazzi, l’ultimo protagonista del Concilio Vaticano II

L’ossessione per la pace e la lettera scandalosa a Berlinguer

Editoriali - di Mons. Vincenzo Paglia

18 Luglio 2023 alle 14:00

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Chi era Luigi Bettazzi, l’ultimo protagonista del Concilio Vaticano II

Con la morte di mons. Luigi Bettazzi a 99 anni, domenica 16 luglio (era nato a Treviso il 26 novembre 1923), scompare l’ultimo dei padri conciliari italiani e forse della Chiesa. A 40 anni, partecipò a tre sessioni del Concilio Vaticano II, dal 1963; nel 1966 da ausiliare di Bologna, vice quindi dell’indimenticabile cardinale Giacomo Lercaro – uno dei fautori del rinnovamento conciliare – lo stesso Paolo VI lo volle vescovo di Ivrea. Erano i tempi delle fabbriche e della Olivetti e la sua vicinanza ai lavoratori, all’epoca, faceva davvero notizia.

Non credo di sbagliare se dico che la vita intera di mons. Bettazzi, nei 33 anni a Ivrea (1966-1999), e poi dopo da vescovo emerito, sia stata segnata dal Concilio Vaticano II: tutto il suo impegno scaturiva da lì. Lo ricordiamo come Presidente del movimento pacifista Pax Christi, prima come presidente italiano, quindi alla guida del movimento internazionale e strenuo difensore della giustizia e della pace. Il 6 luglio 1976 scrisse una straordinaria lettera all’allora segretario del Partito comunista italiano, Enrico Berlinguer, sul rapporto tra fede cattolica e ideologia marxista.

Erano gli anni in cui parte del mondo cattolico si interrogava sull’obbligo di votare Democrazia Cristiana, soprattutto voluto da una parte consistente dell’episcopato. “Mi scusi – scrisse Bettazzi – questa lettera, che molti giudicheranno ingenua, e non pochi contraddittoria con la mia qualifica di vescovo. Eppure mi sembra legittimo e doveroso, per un vescovo, aprirsi al dialogo, interessandosi in qualche modo perché si realizzi la giustizia e cresca una più autentica solidarietà tra gli uomini. Il Vangelo, che il vescovo è chiamato ad annunciare, non costituisce un’alternativa, tanto meno una contrapposizione alla ‘liberazione’ dell’uomo, ma ne dovrebbe costituire l’ispirazione e l’anima”.

“Lei – rispose Berlinguer un anno dopo, nel 1977 ha sollevato problemi la cui soluzione positiva è molto importante per l’avvenire della società e dell’Italia, per una serena convivenza fra tutti i nostri concittadini, non credenti e credenti, oltre che, in particolare, per lo sviluppo di quel dialogo, per amore del quale ha pensato di rivolgersi a me, come lei dice, in quanto segretario del Partito comunista italiano”. Nel Partito comunista italiano – proseguiva Berlinguer – “esiste ed opera la volontà non solo di costruire e di far vivere qui in Italia un partito laico e democratico, come tale non teista, non ateista e non antiteista; ma di volere anche, per diretta conseguenza, uno Stato laico e democratico, anch’esso dunque non teista, non ateista, non antiteista”.

Quella lettera fu – forse pochi lo sanno – l’inizio del disgelo delle relazioni tra il governo marxista-leninista del Mozambico e la Chiesa cattolica del Paese africano che da poco aveva conquistato l’indipendenza. E avviò un processo di incontri che permise l’avvio – con la mediazione di Andrea Riccardi, dell’allora don Matteo Zuppi, dell’arcivescovo mozambicano Jaime Gonzalves, e dell’on Paolo Raffaelli, nella sede della Comunità di Sant’Egidio – della mediazione per il processo di riconciliazione di pace nel Paese. Ricordo con commozione l’incontro tra l’arcivescovo mozambicano (meravigliatissimo per quella lettera) ed Enrico Berlinguer sulla opportunità – così si espresse Berlinguer – di avviare un nuovo rapporto del Governo con la Chiesa cattolica. Avvenne immediatamente.

A seguito di questo, nella pazienza della tessitura delle relazioni, fu possibile successivamente avviare quel dialogo tra la Frelimo e la Renamo che portò alla firma della pace nel 1992. Quella lettera si può iscrivere nella storia del dialogo che portò la pace nel Paese africano, dopo 19 anni di guerra, con 600.000 morti e un milione e mezzo di rifugiati. Ogni gesto che aiuta ad incontrarsi tra credenti e uomini di buona volontà è gravido di una forza che porta verso la pace.

Oltre la Lettera di cui parlo, fu l’impegno per la pace che spinse Mons. Bettazzi ad impegnarsi per l’obiezione fiscale alle spese militari, a favore dell’obiezione di coscienza al servizio militare quando ancora si rischiava il carcere; nel 1992 partecipò alla marcia pacifista organizzata a Sarajevo da “Beati costruttori di pace e Pax Christi” insieme a monsignor Antonio Bello nel corso della guerra civile in Bosnia ed Erzegovina. Da pensionato, da vescovo “emerito”, il suo impegno non è venuto meno e questi anni sono stati vissuti all’insegna dell’educazione alla nonviolenza (ha partecipato a tutte le Marce della pace organizzate il 31 dicembre) e alla riflessione sul Concilio Vaticano II.

Ricordo l’impressione che mi fece – ero allora ancora studente – il fatto che mons. Bettazzi fu l’unico vescovo italiano a partecipare al cosiddetto “Patto delle catacombe”. Era il 16 novembre 1965, pochi giorni prima della chiusura del Concilio, ed una quarantina di padri conciliari – principalmente latinoamericani – nelle Catacombe di Domitilla, a Roma, al termine della messa, firmarono il Patto con cui esortavano i “fratelli nell’Episcopato” a portare avanti una “vita di povertà”, una Chiesa “serva e povera”, come suggerito da Giovanni XXIII.

In una recente intervista con i media vaticani, a proposito di quel giorno, mons. Bettazzi ha detto che “fu un incontro occasionale, promosso dal collegio belga. Nelle catacombe eravamo in 42, io ero l’unico italiano, ma poi ci siamo impegnati a far firmare ad altri e al Papa sono andate 500 firme di vescovi, e sarebbero state forse anche di più, se le avessimo cercate. La cosa importante è l’attenzione ai poveri e si diceva che il vescovo deve vivere più semplicemente, nelle abitazioni e mezzi di trasporto. Ma deve essere vicino ai poveri e ai lavoratori manuali, a quelli che soffrono e che sono in difficoltà, contro la tendenza che abbiamo ad essere vicini ai ricchi e potenti”.

Ecco perché ritengo sia giusto ricordare come un vescovo del Concilio Vaticano II: attento alle esigenze dei fedeli, di tutti i cittadini, capace di leggere i “segni dei tempi”, senza timore di far vedere una Chiesa davvero farsi prossima – la più vicina (prossimo è un superlativo) – a tutti, particolarmente ai poveri. Nella vita di mons. Bettazzi si vede all’opera quella “Chiesa in uscita” che Papa Francesco continua ad auspicare e che trova la sua radice nel Concilio Vaticano II.

Ora spetta a noi continuare a proseguire l’opera del Concilio Vaticano II. Papa Francesco è il primo pontefice a non avere vissuto il Concilio in prima persona, ma decisamente impegnato a portarne avanti le intuizioni, le direttive, e interpretando quell’atteggiamento di fondo che Paolo VI, alla chiusura del Concilio, identificava nel Buon Samaritano: “L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (e tanto maggiori sono, quanto più grande si fa il figlio della terra) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo. Dategli merito di questo almeno, voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscerete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo”.

E’ un testo che ancora oggi commuove, nel senso letterale che “muove” a farsi prossimi verso il mondo – anche questo nostro mondo di inizio del terzo millennio – le cui “gioie e speranze, tristezze e angosce…, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”(Gaudium et Spes).

La vita del vescovo Luigi Bettazzi, padre conciliare, è stata un’eco di questa pagina del Concilio. La sua testimonianza – “padre” voleva farsi chiamare, non “monsignore” o “Eccellenza”, in ossequio al suo essere stato una volta e per sempre “padre” conciliare – indica la direzione verso la quale dirigerci. Con le stesse parole di “padre” Luigi, possiamo dire così: “La chiesa deve aiutare l’umanità a riconoscere il Signore e gli uomini ad amarsi tra di loro”.

18 Luglio 2023

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