La giustizia internazionale
Che cos’è la Corte Penale Internazionale, il ruolo chiave dell’Italia e gli oltre 20 anni di attività
Lo Statuto di Roma che istituì la Corte fu adottato il 17 luglio del 1998, dopo un percorso lungo e tortuoso. In pochi lo sanno, ma il nostro Paese giocò un ruolo chiave perché dalle parole si “passasse ai fatti”. Ecco come andò
Giustizia - di Marco Perduca
Dal 2010, il 17 luglio si celebra “La Giornata mondiale per la giustizia internazionale” in ricordo del giorno in cui, nel ‘98, alla FAO di Roma fu adottato lo Statuto che avrebbe istituito la Corte penale internazionale. Il trattato sarebbe entrato in vigore il 1° luglio del 2002 alla sessantesima ratifica. Non è noto o ricordato, ma l’Italia, governativa e non, ha giocato un ruolo chiave perché dalle “parole si passasse ai fatti”.
La creazione di una giurisdizione penale è da sempre stata considerata un’aggiunta necessaria al sistema delle Nazioni unite; alla Corte internazionale di giustizia, che aggiudica dispute tra Stati, era necessario affiancarne una che perseguisse le responsabilità individuali di chi violava il diritto umanitario internazionale. La Guerra Fredda sospese quelle buone intenzioni fino al 1989 quando, a pochi mesi dalla fine dell’URSS, il primo ministro di Trinidad e Tobago Arthur Robinson rilanciò l’idea di un tribunale penale internazionale per contrastare il narcotraffico che stava destabilizzando i Caraibi – lui stesso scampò miracolosamente a un attentato. Grazie a quell’accorato appello l’Assemblea generale che vide la dissoluzione dell’Unione sovietica incaricò la Commissione per il diritto internazionale di redigere una bozza di statuto. La guerra nella ex-Jugoslavia bloccò i lavori perché nel 1993 il Consiglio di Sicurezza deliberò di creare un Tribunale ad hoc per i Balcani che spianò la strada, un anno dopo, a un’istituzione simile per giudicare il genocidio in Ruanda.
L’anno in cui Berlusconi vinse le sue prime elezioni, la International Law Commission presentò finalmente all’Assemblea dell’Onu una bozza che sarebbe stata affidata alla Commissione affari legali del Palazzo di Vetro per la sua adozione, raccomandando di convocare una conferenza per negoziare un trattato che servisse da statuto della Corte. Nell’autunno di quell’anno Emma Bonino, a nome del governo Berlusconi I, che di lì a poco sarebbe caduto, offrì di ospitare a Roma i plenipotenziari allo scopo di, come fu detto, “passare finalmente dalle parole ai fatti”. La presenza della Deputata radicale nella delegazione italiana all’Onu faceva parte di un accordo politico-elettorale per il centro nord siglato nel 1994 tra la Lista Pannella e Forza Italia grazie al quale sei deputati, ma non Pannella, e un senatore sarebbero stati eletti (più o meno con certezza) nella XII Legislatura. Quell’offerta sarebbe stata confermata dai governi Dini e Prodi, mentre i futuri accordi tra Pannella e Berlusconi ebbero sorti peggiori.
Oltre ad andare contro le priorità di Russia e Cina, la bozza di Statuto non piacque neanche ad altri due stati membri del Consiglio di Sicurezza: USA e Francia – il Regno Unito ancora a guida conservatrice si accodò ai “dubbi” dell’Amministrazione Clinton. A Washington non piaceva la totale indipendenza del procuratore che avrebbe potuto lanciare indagini “motivate politicamente” contro chi usava la forza per mantenere la sicurezza interna (Israele) o internazionale (USA), a Parigi non piaceva che il testo fosse costruito attorno al sistema di Common Law. Nei tre anni di negoziati che seguirono si trovò un bilanciamento sufficientemente condiviso circa buona parte dei rilievi franco-americani, e le preoccupazioni tecniche e politiche relative ai crimini di competenza della corte, in quali casi questa sarebbe intervenuta, se prevedere la pena di morte o l’ergastolo o nessuna delle due, la relazione con il Consiglio di Sicurezza e il ruolo delle vittime.
Quando all’inizio di giugno del ‘98 alla FAO si inaugurò la Conferenza sotto la presidenza di Giovanni Conso, il testo era tutt’altro che pronto. Anche all’interno della Coalizione di Ong, co-fondata nel ‘95 dal Partito Radicale e Non c’è pace senza giustizia insieme ad Amnesty International, Human Rights Watch, i Federalisti mondiali e Parliamentarians for Global Action e altri, le priorità differivano: chi pensava, come i Radicali, che un’opportunità simile non si sarebbe più presentata, chi invece mirava a uno statuto “perfetto”. Trait d’union tra queste visioni apparentemente inconciliabili la Commissaria europea Emma Bonino (un altro dei punti dell’accordo Pannella-Berlusconi) e una quarantina di giovani giuristi e giuriste che, grazie a un progetto co-finanziato da Soros e l’UE a No Peace Without Justice, assistettero una dozzina di paesi in via di sviluppo durante i negoziati.
Dopo una notte di scambi vivaci, il 17 luglio 1998 lo Statuto di Roma fu adottato con 120 voti a favore, 21 astensioni e 7 (Cina, Iraq, Israele, Libia, Qatar, USA e Yemen) contrari. Nei suoi 20 anni di attività sono stati aperti casi su: Afghanistan, Repubblica democratica del Congo, Sudan (Darfur), Georgia, Kenya, Libia, Mali, Palestina, Uganda, Ucraina e Venezuela. Nel 2006 il presidente del Sudan Omar al-Bashir fu ritenuto il mandante del genocidio in Darfur, nel 2011 il dittatore Muammar Gheddafi fu accusato di crimini contro l’umanità, a marzo scorso il Presidente Vladimir Putin di crimini di guerra commessi in Ucraina.
Perseguire la pace attraverso la giustizia può suonare idealistico se non utopistico. Contrariamente a chi ritiene che si tratti di incriminazioni simboliche, quando un Capo di Stato viene formalmente accusato dalla Corte le sue fortune vanno diminuendo. Occorre quindi sostenerne il lavoro finanziariamente, cooperare con le indagini, aiutare vittime e testimoni e adeguare i propri codici come ancora l’Italia non ha fatto.