Le sfide del nuovo Pd
Intervista a Enrico Morando: “Schlein bene su Mes e Ucraina, ma no a battaglie identitarie”
«Non mi convince la partecipazione a manifestazioni indette da altri, su piattaforme che non possiamo condividere. Una coalizione può vincere se si organizza intorno a una forza trainante. E quella forza può essere solo il Pd»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Il nuovo PD e la sfida riformista. L’Unità ne discute con Enrico Morando, leader dell’area liberal del Partito Democratico, tra i fondatori dell’associazione di cultura politica Libertà Eguale, già vice ministro dell’Economia e delle Finanze nei governi Renzi e Gentiloni.
Il nuovo PD di Elly Schlein “vira” a sinistra: no al rifinanziamento della Guardia costiera libica, salario minimo garantito, forte centralità dei diritti civili. Cosa non la convince e cosa invece, da riformista, trova di positivo nell’azione della Segretaria dem?
Dell’iniziativa di opposizione al Governo Meloni ho trovato particolarmente efficace la presentazione -da parte dei gruppi parlamentari del PD- del disegno di legge per la ratifica del Trattato per il “nuovo“ MES. Siamo partiti dalla corretta valutazione dell’interesse generale del Paese: senza la ratifica da parte dell’Italia, la crisi di una grande banca potrebbe trascinare nei guai l’intero sistema finanziario. Abbiamo lavorato sulle difficoltà di Meloni e del suo Governo, costretti dalla loro cattiva propaganda del passato a negare con arzigogoli assurdi l’urgenza della ratifica: prima “aspettiamo la corte di Karlsruhe”, una manifestazione di imbarazzante subalternità al giudice costituzionale di un altro Paese. Poi “vogliamo essere certi di non dovervi ricorrere“: tutti noi, quando ci assicuriamo contro il rischio di incidenti d’auto -il “nuovo“ MES è sostanzialmente questo, un’assicurazione contro i rischi di crisi delle banche sistemiche-, ci auguriamo di non dovervi ricorrere. E, in ultimo, “vogliamo usare la ratifica come oggetto di scambio nella trattativa sul nuovo Patto di stabilità“, quando risulta chiaro che l’Italia, in quella trattativa, lungi dall’inimicarsi gli interlocutori venendo meno alla parola (e alla firma) data, deve cercare e trovare alleati per difendere dall’offensiva conservatrice la proposta di nuove regole del Patto avanzata dalla Commissione. Naturalmente, sapevamo che i gruppi parlamentari del M5S non si sarebbero impegnati in questa battaglia, ma non ci siamo fatti fermare da questa consapevolezza. Il risultato ottenuto è brillante: Governo e maggioranza in fuga dalla realtà (e dal Parlamento), il PD centrale in una battaglia che vede europeismo innovatore contro sovranismo pasticcione.
Il che porta a quali conclusioni politiche?
Dovremmo tenere bene in mente questa esperienza positiva, nelle sue componenti fondamentali: interesse generale, e non battaglie identitarie, come ispirazione di fondo. Attenzione alle alleanze, anche politiche, ma senza riconoscere a nessuno il diritto di veto. Stare al merito dei problemi, mantenendo un adeguato livello di coerenza tra ciò che abbiamo fatto e detto in passato, da posizioni di governo, e ciò che diciamo e facciamo oggi, dall’opposizione. Ho anche apprezzato il fatto che la Segretaria Schlein non abbia modificato la posizione assunta in materia di pieno sostegno, anche con l’invio di armi, alla eroica resistenza Ucraina. Anche se vorrei un maggiore impegno politico- culturale del PD nella società italiana, per spiegare perché i resistenti ucraini combattono anche per noi; per convincere gli incerti e i dubbiosi. Temo che le defezioni nel voto conosciute dal PD su questo tema (soprattutto al Parlamento europeo) abbiano alla loro radice la mancanza di questo lavoro, che un tempo avremmo definito “di massa“. Non mi hanno invece convinto le scelte che contraddicono questa ispirazione. Per esempio, la partecipazione a manifestazioni indette da altri, su piattaforme che non possiamo condividere: temo sia il segno del riproporsi della priorità assoluta delle alleanze politiche. Un vizio politicista che abbiamo pagato duramente nella fase che ci ha portato al voto del settembre del ‘22: alla fine, non abbiamo costruito né le alleanze, né una credibile proposta di governo alternativa a quella incarnata da Meloni.
Contenuti e alleanze. senza un “campo più ampio” non si vince, ha ribadito Schlein.
Certo, “non si vince da soli“. Quindi, dobbiamo costruire alleanze politiche, esattamente come ha (quasi) sempre saputo fare il centro-destra, che supera contrasti e contraddizioni interne certo non meno profonde di quelle che caratterizzano il centrosinistra. C’è però una seconda esigenza, che non può essere ignorata: si vince, se la necessaria coalizione non si organizza attorno ad una forza politica che conferisca alla coalizione stessa la maggior parte del consenso elettorale; le fondamenta di una visione del Paese e della sua collocazione internazionale; la leadership che incarni la proposta di governo di fronte agli elettori? L’esperienza sia del centrosinistra, sia del centrodestra -in Italia e in Europa, dove peraltro il ricorso a coalizioni di più partiti sta prevalendo quasi ovunque- dimostra che, senza un soggetto che abbia questa funzione, non si vince, perché è la sua presenza a garantire la credibilità della proposta di governo. In Italia, nei tempi prevedibili, questa funzione la può svolgere solo il PD. Se il PD defeziona e privilegia un approccio identitario, è vittoria certa per Meloni e alleati.
Nel PD uno dei “giochi” più gettonati e praticati, pressoché da sempre, è il “tiro al leader”. Siamo alle solite?
Il PD è un partito plurale, nel quale linea politica e leadership sono contendibili, in occasione dei Congressi, di fronte a milioni di elettori più attivi. Per ben due volte, in questo contesto di regole, si sono pienamente affermate una linea (e una leadership) riformiste. Se in entrambi i casi ci sono stati prima grandi successi (con relativo record di voti assoluti e percentuali) e poi dure sconfitte, non è stato per il “ fuoco amico“ o le polemiche interne, che pure hanno avuto un peso, ma per nostri errori. Nell’ultimo Congresso, Schlein ha combattuto a viso aperto, per una linea che non condivido, ed ha vinto. È pienamente legittimata ad agire per attuare quella linea. Noi riformisti abbiamo un compito enorme: no, non è quello di rovesciare la leader. È quello di cercare di influire sulle sue scelte, in piena trasparenza, senza trasformismi e senza reticenze. C’è -come è stato detto- un’alternativa tra gli applausi acritici e rassegnati e la scissione. Serve innanzitutto al partito (dunque, anche a Schlein): se non è visibile e vivace l’iniziativa dei riformisti del PD, troppi iscritti ed elettori possono essere indotti a pensare che il PD sta cambiando natura. Una convinzione che induce al disimpegno e all’astensione dal voto.
Tutti si dicono “riformisti” ed “europeisti”. Ma senza sostanziarle politicamente, restano parole e definizioni prive di senso. Provi lei a declinarle.
Allora, sostanziamole: riformisti sono quelli che una volta al giorno, verso sera, si chiedono: cosa ho fatto, oggi, per costruire una realistica e ambiziosa alternativa di governo? E, se non hanno fatto nulla, non si consolano dicendosi che hanno compiuto qualche passo verso la riscoperta della propria identità. Identità è un presupposto. Non un fine. Europeisti sono quelli che quando -grazie al PD, con Gentiloni e Draghi-, si fa un enorme passo verso una politica di bilancio comune, come abbiamo fatto col Programma Next Generation UE, non annegano una svolta di questa portata dentro una generica (auto)critica di “governismo“.
Pnrr, migranti, autonomia differenziata…: la destra mostra le prime incrinature di cui il palese nervosismo della premier è una testimonianza plastica. Non sarebbe il caso d’incalzare piuttosto che polemizzare sul “campo largo”?
Assolutamente. Per farlo, bisogna ripartire dai fondamentali. Il Next Generation EU, di cui il PNRR è uno strumento attuativo, è un insieme di investimenti e riforme. Gli investimenti sono in ritardo. Ma le riforme, quelle, sono letteralmente scomparse; anche le più facili, come le gare per le concessioni balneari. Eppure, basterebbe seguire il modello del disegno di legge del PD per la ratifica del Trattato sul MES: proposta puntuale e mobilitazione sociale e politica per sostenerla.
E sull’autonomia differenziata?
Il progetto Calderoli ha evidenti limiti e presenta contraddizioni su cui si può e si deve lavorare, mobilitando le autonomie locali, al Sud come nel Centro-Nord. Ma l’articolo 116 in Costituzione ce lo abbiamo messo noi (e il popolo italiano ha votato per tenercelo). Ora, bisogna completarlo, partendo dalla riforma del Parlamento, con la costruzione della Camera delle Regioni. La pretesa del Governo di procedere con l’autonomia differenziata ignorando l’esigenza di costruire questa sede di concertazione (e di compensazione) tra Stato centrale e Autonomie, è irragionevole. Su questo punto va aperto un conflitto molto determinato. Non possiamo però ignorare che alcune Regioni governate dal centrosinistra si sono mosse per attuare l’articolo 116, come altre governate dal centro-destra. Né possiamo ignorare che un “nostro“ Governo ha presentato un progetto di attuazione. Il solo no a Calderoli , senza un vigoroso rilancio del nostro disegno autonomista, indebolisce l’iniziativa di opposizione e fa torto ad un costante impegno di innovazione istituzionale.
Nell’ultima Direzione, la Segretaria ha lanciato l’”estate militante”. Lei è della partita?
Certamente. Con una preferenza, perfetta per la stagione: la nostra proposta sulle concessioni balneari. E una priorità di tipo strategico: il trattamento Irpef differenziato a favore del reddito da lavoro delle donne. Tutte, dipendenti e autonome.