Il libro
Abbiamo visto il Sol dell’Avvenire: sogni e racconti di chi ci ha creduto
Se a scuola si insegnasse sul serio storia contemporanea, un libro così sfaccettato sarebbe prezioso
Cultura - di Vanni Pierini

Giuseppe Pino Santarelli ha avuto la curiosa ma non balzana idea di intervistare venticinque anziani coetanei, studenti o lavoratori, che negli anni Sessanta si impegnarono a vario titolo nelle file del Pci e poi fuori di quel partito in diversi settori del sindacato e della sinistra.
Tutte storie diverse, ma figlie di un’esperienza comune. È la generazione cresciuta nei primi anni del secondo dopoguerra, a cavallo del “miracolo economico”, dell’Autostrada del sole, del trasferimento di milioni di lavoratori dal Sud al Nord. Ma è anche l’Italia dei cantautori, delle vacanze di massa, l’Italia ottimista, che ben presto si trasformerà nell’Italia dell’ inflazione, delle lotte sociali, del debito pubblico, del primo centro-sinistra.
Questo libro è un modo emozionale di accostarsi alla storia, perché i temi toccati sono rendiconti dissepolti, riflessioni, scelte esistenziali e così via. La scrittura, nelle interviste, è un parlato efficace. C’è in quasi tutti gli intervistati un sottofondo di appartenenza pacificata, di deposizione delle armi di fronte all’esito in gran parte eluso di quasi tutte le numerose idee puntigliosamente elaborate e sostenute al tempo della loro formulazione. Questo atteggiamento rende più confrontabile il percorso di ciascuno. Spunta anche l’esigenza di abbozzare bilanci. I conti con la storia sono anche i conti con la coscienza.
La nostra coscienza. Dico nostra perché ci sono anch’io tra i vecchi ex-giovani intervistati da Pino. Il lavoro di Santarelli si snoda attraverso un dialogo serrato, che fa emergere gli episodi formativi di quei primi anni Sessanta. Ricordo la drammatica carica a cavallo dei fratelli D’Inzeo a Porta San Paolo e i morti di Reggio Emilia (1960); le manifestazioni, a Piazza di Spagna contro la barbara esecuzione di Julian Grimau in Spagna (1963); le cariche di polizia al centro di Roma sulla manifestazione contro la visita a Roma di Ciombè (1964). Motivazioni ideali, internazionalismo, antifascismo erano alla base delle scelte di vita. All’interno della Fgci di Roma erano prevalenti le posizioni trotskiste, degli aderenti alla IV internazionale di Livio Maitan.
Tra le componenti del Pci quella ingraiana sarà interlocutrice privilegiata della federazione giovanile; il ‘centrismo’ togliattiano era criticato fortemente, la Resistenza rappresentata come popolo in armi per la conquista del ‘sol dell’avvenir’, assai più che come guerra di Liberazione e premessa della nuova costituzione democratica. Le prime avvisaglie del centro sinistra erano viste come il fumo negli occhi e provocavano giudizi feroci sul Partito Socialista, oltre che anatemi spicci, generici, destinati a mordere il vuoto. Fino alla pubblicazione del Memoriale di Yalta di Togliatti e al divampare della ‘sporca guerra’ americana nel Vietnam i giovani erano internazionalisti ed antimperialisti a prescindere. Ci si innamorava della rivoluzione cubana e delle donne di Algeri, ma in una accezione irrelata, di tappe della ‘rivoluzione mondiale’, quindi in modo volontaristico, talvolta dilettantesco.
I funerali di Togliatti furono la più grande manifestazione in qualche modo ‘sacra e sconsacrata’ della storia d’Italia. Ma la morte di Paolo Rossi davanti alla Facoltà di Lettere provocata da fascisti nel 1966 e la prima occupazione dell’Università fu una svolta nel rapporto tra studenti e partito comunista, per la crisi delle rappresentanze studentesche collegate ai partiti. Il nascere di nuove forme organizzate evolverà dal movimento studentesco a un rapporto da stringere con gli operai, nel moto del Sessantotto europeo.
Di qui la spinta verso la radicalizzazione delle rivendicazioni, soprattutto all’indomani delle bombe di Piazza Fontana; importante per molti fu la scissione del gruppo ingraiano alla sinistra del Pci, (il manifesto) senza Ingrao, e il successivo proliferare di gruppi e gruppetti extraparlamentari, accanto ai tentativi di lotta armata, che insanguineranno il Paese lungo gli anni Settanta, vero e proprio periodo di guerra civile a bassa intensità culminata con l’uccisione di Aldo Moro per mano delle Brigate Rosse.
In quel medesimo decennio Berlinguer, dopo la strategia del ‘compromesso storico’ all’indomani dell’assassinio di Moro serra i ranghi del Partito, e si colloca sotto la protezione della Nato. Otterrà così una foto di gruppo apparentemente compatto, lasciando però tragicamente inevasi i problemi di fondo: come e quando superare la spaccatura storica tra socialisti e comunisti; come e quando dichiarare la fine della dipendenza dall’Urss; come e quando far crescere il socialismo riformista europeo e perseguire la costruzione degli Stati Uniti d’Europa.
Quanto all’ultimo decennio, gli anni 80, dalle interviste si ricava un brusco calo di fiducia nelle prospettive della sinistra identificatasi con il Pci. Per alcuni è l’inizio di un peregrinare tra il partito, il sindacato, i residui gruppi in un crescendo di obsolescenza, tentennamenti, defezioni. Fino al collasso dell’Urss e ai cambi di nome (Pds, Pd) cioè alla fine del Pci, e all’evanescente navigazione dei successori. Per altri si innesca un processo più radicale, un allentamento dell’appartenenza partitica. Infine altri ancora, tra i quali chi scrive, scoprono la voglia di occuparsi di altri temi e campi repressi o trascurati, sulla base di un cammino individuale, libero, pronto agli incontri e ai progetti, alla scoperta dei propri talenti e di una differente socialità che inizi con l’introspezione e si dimostri dialogante.
Vorrei concludere con un pensierino. Se a scuola si insegnasse sul serio storia contemporanea, la lettura di un libro di parte così sfaccettato come questo IO C’ERO, potrebbe essere preziosa, per il merito e per il metodo: quello del confronto attraverso la battaglia delle idee e le conseguenze delle idee sulle vite di ognuno.