Il garantismo del Cav
Se hanno vinto le toghe è anche colpa di Berlusconi
È stato senza dubbio un protagonista dello scontro tra politica e magistratura e una vittima della malagiustizia. Ma icona del diritto penale liberale proprio no.
Politica - di Valerio Spigarelli
Alla notizia della scomparsa di Berlusconi si è aperto un dibattito sul suo ruolo nel campo della Giustizia. Nei media – soprattutto in quelli dell’area di rifermento politico della maggioranza di governo – è passata l’idea che Berlusconi sia stato una icona del diritto penale liberale, oltre che un protagonista dello scontro tra politica e magistratura ed una vittima della malagiustizia declinata in salsa politica.
Intervenendo dalle colonne del Dubbio ho avanzato l’idea che il Cavaliere può a buon diritto riconoscersi nelle due ultime silhouette, ma certamente non nella prima.
Provo a spiegarmi facendo riferimento ad alcuni dei passaggi storici in cui la figura di Berlusconi, e il suo sistema di potere incentrato sulla gestione di grandi media nazionali, hanno contato non solo con riguardo alle scelte compiute ma anche come formatori del comune sentire sui temi della giustizia. Al riguardo è bene non dimenticare che il debutto di Berlusconi in politica, la famosa discesa in campo del 1994, avvenne nel pieno della temperie di Tangentopoli.
Un passaggio storico nel corso del quale la magistratura rivendicò un ruolo del tutto improprio, quale “levatrice” di un rinnovamento politico fondato sul controllo di legalità, e per la verità, anche di moralità. Uno dei tratti distintivi, e del tutto criticabili, di quella stagione fu infatti la ricerca ostentata e rivendicata da parte della magistratura del consenso popolare, da Milano prima e poi nel resto del Paese, quali controllori del tasso di moralità degli esponenti politici. Celeberrimo, in tal senso, l’invito del Procuratore Capo Borrelli a tenersi alla larga dalle elezioni da parte di coloro che avevano “scheletri nell’armadio”.
Una sgrammaticatura costituzionale del tutto evidente, posto che i magistrati sono sottoposti alla legge e nella loro azione il consenso popolare è fattore del tutto escluso, se non addirittura foriero di situazioni che possono attentare all’ordinario svolgimento dei processi. Quel consenso, è bene sottolinearlo, non fu un incidente di percorso, un effetto indiretto e spontaneo della azione moralizzatrice che le inchieste giudiziarie incarnavano. In quel passaggio storico, ed ormai sono in molti anche tra i magistrati a riconoscerlo, la ricerca del plauso popolare, anche con le manifestazioni di piazza, fu calcolata e rivendicata dalla magistratura, anche attraverso un rapporto assai stretto con gli organi di informazione fondato sullo stillicidio di anticipazioni sugli sviluppi delle inchieste.
Basta leggere il bel libro di Goffredo Buccini su quegli anni a palazzo di giustizia per averne dimostrazione. Orbene, in quella fase, e quando il progetto di far nascere Forza Italia era già in stadio avanzato, le televisioni del Cavaliere si distinsero per lo zelo con il quale sostennero l’azione del Pool, fino a costruire i miti dello “sceriffo” Di Pietro e del “Dottor sottile” Piercamillo Davigo. Nessuno può certo dimenticare le vibranti cronache giudiziarie degli inviati delle televisioni del Cavaliere, sotto il palazzo di giustizia di Milano, che con voce grondante soddisfazione distillavano il bollettino degli arrestati e dei coinvolti nella inchiesta. Un mattinale del secondo millennio. Indimenticabile il trasporto di Paolo Brosio che all’epoca raggiungeva picchi di misticismo apologetico poi eguagliati solo quando, in seguito, diventò devoto alla Madonna di Medjugorje.
Insomma, per essere una icona del diritto penale liberale Berlusconi ha la corresponsabilità di aver sostenuto gli albori della deriva costituzionale sul ruolo della magistratura, ben rappresentata dal Niet, lanciato a reti unificate dal Pool nella vicenda del cd. decreto Biondi. Peraltro, e non a caso, una volta vinte le elezioni, fu proprio Berlusconi a proporre ai due membri del Pool ritenuti “non di sinistra”, cioè proprio Di Pietro e Davigo, di entrare a far parte del suo governo con ruoli di primissimo piano: ministro dell’Interno l’uno, della Giustizia l’altro. L’offerta non fu accolta ma questo non conta, l’importante è che fu avanzata.
Concludendo sul punto è indubbio che Berlusconi abbia coccolato il populismo giudiziario ancora in fasce, salvo poi, come l’apprendista stregone, rimanere travolto proprio dal meccanismo che aveva contribuito ad innescare. Solo dopo l’evento traumatico della notifica dell’informazione di garanzia durante il summit di Napoli l’atteggiamento della galassia mediatica di Berlusconi iniziò a modificarsi, anche se, per la verità, il germe del populismo giudiziario s’era ormai installato nelle sue tv.
Il che fruttò un filone di trasmissioni trash sulla giustizia che sull’impasto di mostri sbattuti in prima pagina, pubblicazione arbitraria di atti ed intercettazioni, mostrificazione di taluni imputati, liquidazione della presunzione di innocenza, santificazione di alcuni uffici giudiziari o singoli magistrati, ha continuato a campare per anni. E campa tutt’ora essendo comprese nel palinsesto Mediaset trasmissioni che in genere stritolano Carneadi, salvo poi essere bilanciate da altre trasmissioni, poche, in cui di giustizia si parla in maniera seria.
La nemesi storica è stata che, come ai tempi della glorificazione del Pool, la faccenda ha travolto chi l’ha innescata tanto che, nutrito da questi esempi di cattiva informazione giudiziaria, si è creato un diffuso sentire popolare che alla fine ha premiato i giustizialisti doc come i Cinque stelle facendoli trionfare alle elezioni. Tornando ai fatti politici merita un ricordo anche l’infelice esito della commissione bicamerale presieduto da D’Alema, che aveva prodotto, con la bozza Boato, il primo tentativo di modifica del titolo IV° della Costituzione dopo quello, senza esito, dell’On Bozzi durante la prima Repubblica.
Anche questo passaggio è di rilievo perché Berlusconi, ormai in guerra con la magistratura, fece fallire quel tentativo, certamente per motivi politici che coinvolgevano un contesto più ampio, ma comunque ritenendo, all’evidenza, l’obiettivo della riforma della giustizia sacrificabile. Scelta che si è poi ripetuta all’epoca del referendum organizzato dai radicali e dall’Unione delle Camere Penali nel 2000 quando, come noto, il Cavaliere non solo non sostenne la campagna referendaria ma alla fine, more Craxi anni prima, invitò gli italiani ad andare al mare e non alle urne.
Il risultato fu che il quesito referendario che richiamava la separazione delle carriere non passò, pur raccogliendo ben dieci milioni di voti favorevoli, e questo segnò un’indubbia vittoria per l’ANM, che vedeva (e continua a vedere) questa ipotesi come il fumo agli occhi. Le ragioni di quella scelta, almeno quelle ufficiali circa la “complicatezza del quesito e l’accostamento ad altri di minor popolarità” in tema di giustizia, sono sempre apparsi piuttosto fragili. Del resto, che gli italiani avessero ben compreso il quesito e la tematica della separazione lo dicono non solo i numeri assoluti sopra ricordati, ma anche la percentuale altissima di consensi tra coloro che parteciparono alla tornata referendaria; una percentuale molto più alta che non per gli altri quesiti. Ancor più inconsistente, e negata dagli avvenimenti successivi, l’ultima ragione accampata, che riguardava il fatto che con il referendum non si sarebbe potuta raggiungere una “vera” riforma costituzionale, riforma che, in cambio del boicottaggio del referendum, Berlusconi si impegnò a fare appena tornato al governo.
In realtà queste erano considerazioni strumentali e la loro manifesta inconsistenza lascia spazio all’interrogativo che, forse, la causa reale di quell’inaspettato regalo alla magistratura potesse essere in qualche modo legata alla richiesta, ovviamente avanzata in via ufficiosa da qualche presunto plenipotenziario del Cavaliere, di un do ut des relativo alle vicende giudiziarie allora in corso. Insomma, si sacrificava la separazione nella speranza di un atteggiamento meno intransigente delle Procure. Speranza vana e smentita dai fatti successivi. In ogni caso, visto il tradimento referendario, Berlusconi, dopo essere entrato in nomination con Marcello Pera e Gaetano Pecorella, a quei tempi si aggiudicò il premio “Toga rossa”, sarcasticamente istituito dalla Camera Penale di Roma per premiare i veri avversari della separazione. Del resto, che il riformatore liberale Berlusconi fosse piuttosto incline a leggere le cose di giustizia, anche quelle di carattere generale, molto alla luce delle sue personali vicissitudini giudiziarie è cosa nota, e la stagione dei provvedimenti ad personam lo dimostra.
Quel che invece è meno noto è che in altri passaggi il tentativo di blandire la magistratura ha incrociato nuovamente la possibile riforma che, come al solito, ne ha avuto la peggio. Una volta tornato al governo, nel 2001, Berlusconi non mancò di annunciare l’ennesima riforma epocale della Giustizia, comprensiva, ovviamente, della separazione delle carriere. Solo che si trattava, come si comprese analizzando le norme della cd legge Castelli, di una truffa delle etichette: non di separazione delle carriere si trattava ma di una forma, anche blanda, di separazione delle funzioni. E fu proprio in quel contesto che, a dispetto delle dichiarazioni roboanti (e controproducenti per chi la riforma vera l’aveva a cuore) sui magistrati “modificati geneticamente” oppure “cancro dell’Italia”, si scoprì che la contrattazione sindacale con la magistratura, ritenuta vera controparte sui temi di giustizia, era praticata dal Cavaliere così come – da sempre – lo era stato da tutte le altre forze politiche della Prima e della Seconda Repubblica.
Nonostante le generose concessioni del governo, che di settimana in settimana edulcorava il provvedimento, l’ANM rilanciava ogni volta, anche attraverso scenografiche manifestazioni in sede di apertura dell’anno giudiziario opponendosi all’intervento dell’ordinamento giudiziario qualificato come un oltraggio alla “più bella costituzione del mondo” (dalla quale però avevano espunto la VII disposizione transitoria che quella riforma la prescriveva da lustri…). Fu così che, in un soprassalto di sincerità, un esponente di primo piano di FI che si occupava della materia, Nitto Palma, sbottò dicendo “Ma di che si lamentano? Abbiamo accolto il 90% delle loro richieste?”. La prima delle quali, ca va sans dire, era stata proprio quella di non fare la separazione delle carriere. Insomma, il Cav B. riformatore liberale si comportava come un democristiano della più bell’acqua: in pubblico urlava contro la magistratura dietro le quinte lisciava il pelo alla magistratura degradando le riforme a mera trattativa sindacale, anche elargendo il generoso cadeau dell’innalzamento dell’età pensionabile dei magistrati. Il tutto, va detto, ancora una volta, senza portare a casa l’impossibile pax giudiziaria tanto agognata.
Si arrivava così all’ultimo governo Berlusconi, quello entrato in carica nel 2008 e forte di una formidabile maggioranza alla Camera, che avrebbe assicurato la strada spianata ad interventi di struttura. Solo che, come al solito, anche all’epoca erano in giro molti processi che riguardano il Premier (e qui, per la verità, sull’accanimento giudiziario o la estrema discrezionalità delle indagini a suo carico bisognerebbe aprire un capitolo a parte) che premevano alle porte. E così, ancora una volta, la riforma venne accantonata nella prima parte della legislatura per dare spazio ad ipotesi di leggi che avrebbero dovuto garantire l’immunità, come il Lodo Alfano e che ovviamente fallirono l’impresa.
Finalmente, solo nei primi mesi del 2011, Alfano, pressato anche dall’Unione delle Camere Penali, tirò fuori il progetto di riforma costituzionale elaborato proprio dai penalisti, gli apportò qualche ritocco e lo presentò in parlamento. Si aprì una breve stagione di dibattito, anche fecondo, presso la Commissione affari costituzionali, con numerose audizioni in cui si registrano inaspettati consensi all’ipotesi di riforma. Tanto per dire, si dichiarò a favore della separazione delle carriere anche l’allora Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, Vitaliano Esposito. Notizia ovviamente oscurata dalla gran parte della stampa embedded sul carro delle procure, ma neppure troppo valorizzata dalla stampa amica del nostro. Purtroppo, però, si era ormai fuori tempo massimo, la crisi economica e il Governo Monti chiusero la speranza ai sogni di gloria riformatori.
Come si vede una storia punteggiata da occasioni mancate, che però, più che dal destino cinico e baro, o dalle pressioni del complesso mediatico giudiziario – che pure ha pesato – è stata determinata dalla mancanza di una reale volontà politica di portare a compimento quel grande disegno riformatore in tema di giustizia che pure Berlusconi a parole si è sempre intestato. Ma nella politica, alla lunga, devono contare i fatti, non le intenzioni. Tra i quali fatti, peraltro, per inquadrare compiutamente il ruolo effettivamente svolto da Berlusconi e dal suo movimento, non può certo dimenticarsi che di leggi, in tema di giustizia, il nostro ne ha però fatte molte, ma anche quelle ben lontane da una idea liberale della giustizia.
Come tutti, avversari ed alleati, anche Berlusconi ha infatti versato il suo tributo alla legislazione penale reattiva, demagogica, simbolica. Ha licenziato decreti sicurezza e inasprito pene ad ogni stormir di fatto di cronaca, ha stabilizzato il 41 bis e lo ha centralizzato a Roma, ha introdotto ipotesi di custodia cautelare obbligatoria, ha rafforzato il sistema – illiberale come pochi – delle misure di prevenzione. Tutte imprese legislative di cui ha menato vanto (riguardare il mitico match televisivo con il duo Santoro/Travaglio per conferma) senza neppure cogliere la contraddizione tra il modello di giustizia proclamato e quello realmente perseguito. In realtà, di riforme liberali nel campo della giustizia Berlusconi ne ha fatte poche quando è stato al potere, mentre, paradossalmente, ha portato a casa qualcosa di importante quando era all’opposizione, come il Giusto Processo in Costituzione, per esempio. Insomma, Berlusconi, soprattutto per i suoi slogan paradossali e per l’intreccio con le sue personali vicende giudiziarie, è stato più un problema che una risorsa per la vera rivoluzione liberale della giustizia.
Ps: stendendo queste note, ho trovato una moltitudine di annunci, nel corso degli anni di governo berlusconiani, in cui si prometteva la “vera riforma.. separazione delle carriere inclusa” nella “seconda fase del governo”, in genere per “l’autunno”. Guarda tu, sembrano le parole di Nordio.