Il caso del politico di FI

Chi è Gianfranco Miccichè: non crocifiggete Frisco, fragile e privo di vittimismi

Frisco, come lo chiamavamo a Palermo è stato sempre un personaggio libero, apparentemente senza ambizione. E non ha mai nascosto chi era

Politica - di Fulvio Abbate - 30 Giugno 2023

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Chi è Gianfranco Miccichè: non crocifiggete Frisco, fragile e privo di vittimismi

Queste mie parole giungano in difesa di Gianfranco Miccichè sotto gli occhi di tutti per una brutta storia di cocaina, di cui ammette il consumo. Giungano anzi di “Frisco”, così lo abbiamo sempre chiamato noi, i compagni. Parole che seguono le stesse che dissi, anni fa, sempre in sua difesa, quando, da presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana, rispondendo a Matteo Salvini davanti ai migranti in ostaggio sulla “Nave Diciotti”, salì a bordo per portare indumenti puliti alle ragazze, il leader leghista sempre da lui definito “uno stronzo” (sic).

Frisco non ha mai negato le proprie umane debolezze. Frisco che tuttavia precisa di “non avere mai chiesto all’autista di usare il lampeggiante”. Risposta da uomo di mondo, libero da ogni protervia. Inarrivabile Gianfranco, riuscito infatti, attraverso un’ars retorica ignota ad altri, chiose filosofiche serali degne dei migliori ragazzi palermitani davanti all’ormai sfrattato “Baretto” di Mondello, a rispondere a ogni accusa fuori da ogni vittimismo. Parole perfette, come pietre, parole, come panelle, di più, parole come panelle e crocchè davanti a una destra che non conosce unicamente i gesti della proibizione davanti al tema delle sostanze stupefacenti. Sorvegliare e punire, direbbe Michel Foucault. Frisco, tra via Tavola Tonda e piazzetta Meli, a Palermo, dove avevano sede gli anarchici, lui più prossimo a Lotta Continua con l’amico Vincino.

Frisco ragazzo di lotta e di mondo, camicia azzurra di lino, Frisco infine uomo di governo con Berlusconi. Addirittura Miccichè protagonista di un 61 a 0, i collegi elettorali siciliani tinti d’azzurro, come la sua camicia. Frisco luogotenente generale di Forza Italia in terra di Trinacria, con Berlusconi che gli consegna il bastone di comando alla Fiera del Mediterraneo, già regno delle prime crêpes al “Grand Marnier” lì scoperte dai palermitani. Se, quando insieme frequentavamo il bar “La Cuba” di Villa Sperlinga, tra scrittori d’avanguardia del Gruppo 63, spinellari, baby sitter, fricchettoni e tossici di eroina, con John Lennon a cantare Mind Games nel jukebox, mi avessero mostrato dentro la sfera di cristallo Gianfranco sul banco del governo avrei pensato a un’illusione ottica, invece si trattava proprio di lui, Frisco nostro. Frisco come contrazione di San Francisco: West Coast, Crosby, Still, Nash e Young, Kerouac e Ferlinghetti.

Sia detto senza offesa, ma la maggior parte dei testimoni d’allora nulla avrebbero scommesso su Frisco professionista, ritenevano l’uomo un “montato”, un “convinto”, disinteressato a una carriera banalmente borghese, nessuna ambizione; da immaginare semmai in maniche di camicia e occhiali “Persol” nei locali più “tochi” della città; vita pura e semplice. Oppure a Mondello, Circolo “Lauria”, o magari ancora con gli amici di Lotta Continua tra Pantelleria, Levanzo e le Eolie, nel tempo in cui Mauro Rostagno e compagni avevano sede in piazza Rivoluzione. Siccome gli amici mai vanno dimenticati, Vincino, appena Frisco ebbe le prime pubbliche glorie, era il 1995, pubblicò in una vignetta i suoi numeri privati di cellulare e perfidamente accennò a una storia di cornicette marocchine imbottite di “merce”, così quando i ragazzi della migliore Palermo si facevano le canne, se non di peggio.

D’altronde, già a metà anni Settanta, raccontando Palermo, L’Espresso titolò: ‘“Dopo la lotta, verrà la festa continua”. E le vinerie. Bisogna però aggiungere che Frisco, al contrario d’altri, sia detto per ragioni di stile, mai dette l’impressione di consacrarsi al bicchiere di “Mateus” in una Palermo imbattibile per promiscuità: figli dell’aristocrazia e rampolli della rara borghesia imprenditoriale, teatranti come Gigi Burruano, e poi giornalisti etilisti e infine “malacarne”, tutti a dare luce e chiacchiere nei pomeriggi a fondo perduto.

Come Pinocchio, un certo giorno, Micciché si guarda allo specchio e scopre d’essere diventato adulto. Molti suoi amici, quando Frisco è diventato il “viceministro Gianfranco Micciché”, l’uomo appunto del 61 a 0, gli hanno tolto il saluto, soprattutto, così dicevano: per un fatto di coerenza politica; però quando è venuta fuori la storia di un suo eventuale coinvolgimento in una storia di coca, a Palermo non hanno potuto fare a meno di pronunciare giù-le-mani-da- Frisco! Senza alcuna ironia. Lo stesso vale per quest’ultima recente vicenda di “neve” che non lo mostra comunque inquisito. Forse, già che siamo in tema, occorrerà raccontare la storia vera del funerale del vecchio barone, come ho già fatto in un mio romanzo che ha la pretesa di riassumere la singolarità palermitana.

Al momento della tumulazione, al cimitero dei Rotoli, un amico del patrizio estinto si rivolge ai convenuti: “Secondo voi, il nostro come vorrebbe essere ricordato?” Basta un attimo, quando un altro dei presenti, natata una lapide di marmo nero lucente, prepara una pista, arrotola una banconota, dà il primo tiro, gli altri faranno altrettanto. Il minimo nella città di Fulco di Verdura. Gianfranco Miccichè da immaginare mentre raggiunge Mondello, il vento della “Favorita” sul viso. Lui che non ha mai negato d’essere se stesso. D’essere Frisco.

 

 

 

30 Giugno 2023

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