Censura e intolleranza
Le battaglie per Valerio Fioravanti di Rossanda, Pintor e Parlato
Denunciammo la vergogna del processo 7 aprile (contro l’Autonomia operaia) come la farsa delle indagini sulla strage di Bologna. Quanti insulti!
Editoriali - di Tiziana Maiolo
Spero mi scuseranno i miei amici Francesca Mambro e Valerio Fioravanti se non riesco più a seguire i mille processi sulla strage di Bologna che attraversano e riempiono, loro malgrado, la vita della loro famiglia, passato e presente. Sì, ho scritto “amici”. Ma avrei potuto usare il termine di “compagni”, essendo noi parte di una stessa comunità, quella dell’Associazione “Nessuno tocchi Caino”, di cui sono stata uno dei fondatori e sono tuttora dirigente.
Per l’abolizione della pena di morte nel mondo, il nostro punto di partenza. Che tradotto in italiano vuol dire tante cose, abolizione dell’ergastolo e anche del carcere. E dell’intolleranza. Quella di sinistra e di destra, ma ho conosciuto di più la prima. E, se non riesco più a seguire i processi che, dopo oltre quarant’anni paiono più il trastullarsi di pochi con il gioco dei “mandanti” che non una vera, ancorché ormai inutile, verità processuale, il motivo è proprio nella mia distanza dal mondo dell’intolleranza. Quella che ha colpito Piero Sansonetti per la pubblicazione di un articolo.
Non ho nessuna affezione particolare per la storia dell’Unità. Ricordo ancora, era il 28 aprile del 1971, quando uscì in edicola il primo numero del Manifesto, il quotidiano “cugino” pubblicò un corsivo offensivo dal titolo “Ma chi li paga?”. La mia storia, più vicina a quella della sinistra detta “extraparlamentare”, non è quella di Piero Sansonetti. Nel presente, siamo più vicini di quanto non sembri. Soprattutto su alcuni presupposti che hanno visto rinascere l’Unità, il garantismo e la tolleranza, prima di tutto. Non potrei scrivere su questo quotidiano, se le porte non fossero aperte anche per Valerio Fioravanti, così come per Sergio D’Elia, con la sua storia opposta e speculare del terrorismo di sinistra.
Non potrei, se in questo collettivo non fossimo tutti insieme pronti a difendere i diritti dell’avvocato Giancarlo Pittelli, processato per concorso mafioso, così come quelli di Matteo Renzi per Open a Firenze e nella stessa città per Berlusconi e Dell’Utri indagati come mandanti di bombe. Il Manifesto di Rossanda Pintor e Parlato ha condotto una vera campagna di stampa in favore dei diritti di Mambro e Fioravanti. Con la stessa passione con cui ci siamo impegnati contro il processo “7 aprile” che aveva coinvolto non solo i “compagni che sbagliano”, ma anche quelli che forse sbagliavano sul piano politico, dal nostro punto di vista, ma non su quello penale.
Ma per quello, nessuno dell’Unità o del Pci si è mai permesso di insultarci. È successo invece proprio per la strage di Bologna. Perché lì c’è molto di più di una ferita aperta. Lì è nato, all’ombra della federazione del partito comunista che di sera si riuniva con alcuni pubblici ministeri, un vero partito. Il partito dell’intolleranza, quello che ogni 2 agosto, nel ricordo tragico di quegli 85 morti e di quei 200 feriti del 1980, si esibisce nei fischi agli esponenti del governo, tranne quando siano considerati “amici”. Mi domando con quale diritto quei pochi ritengano di interpretare i desiderata politici degli 85 morti. Si sono costruite carriere, su quei morti. E anche su quei fischi.
I giovani cronisti del Manifesto, tra loro c’erano molti emiliani (come me, che sono nata a Parma) e bolognesi, erano andati subito sul luogo della strage, non solo a fare il loro mestiere di giornalisti, ma a lavorare a mani nude insieme ai tanti volontari che si erano stretti nella loro comunità. Più di adesso, ovviamente, perché lì non c’era nulla di naturale, in quella calamità. Pure, quando il 19 luglio del 1990, a dieci anni dalla strage, una corte d’assise d’appello aveva assolto Francesca Mambro e Valerio Fioravanti e il Manifesto diretto da Valentino Parlato aveva titolato “Lo scandalo di una sentenza giusta”, da Bologna erano partiti gli insulti.
Intanto l’Unità diretta da Massimo D’Alema aveva pubblicato una prima pagina bianca in segno di protesta. E poi, noi del Manifesto ci siamo beccati i simpatici attributi di fascisti e “oggettivamente” mandanti di stragi da parte della federazione bolognese del Pci. Pubblicammo le loro amichevoli osservazioni e poco ci mancò, visto i loro rapporti simbiotici con alcuni pm, che non ci facessero processare come “mandanti”. Magari insieme a Licio Gelli e l’intero gruppo di deceduti di recente condannati. Ridicolmente, secondo il mio parere. E chissà se al Manifesto la pensano ancora così. Lo spero. Anche perché, se tutti nel frattempo, non solo Mambro e Fioravanti, ma tutti noi, siamo cambiati, non possiamo esserlo che in meglio. E aprire le porte a questo cambiamento.
L’altro ricordo che mi vincola, pur se non vorrei, a tutta questa vicenda della strage e anche al partito dell’intolleranza, risale al 2015. Allora collaboravo a un rimpianto quotidiano che si chiamava Il Garantista ed era diretto da Piero Sansonetti. Avevo scritto un articolo che pareva seguire il filo di continuità rispetto alla campagna del Manifesto. Pur da distanza politica. Ma era accaduto che, dopo 26 anni (26!) di carcere Francesca Mambro e Valerio Fioravanti avevano ottenuto la libertà condizionale.
Provvedimento legittimo e doveroso, avevano trascorso la giovinezza in carcere, avevano pagato per quel che avevano fatto e anche per quello, la strage, su cui si sono sempre dichiarati estranei. Indovinate? Era insorto Paolo Bolognesi, il successore di Torquato Secci al vertice dell’Associazione bolognese che io chiamo partito degli intolleranti. Era diventato deputato proprio per quei meriti e aveva subito presentato un’interrogazione al governo, che era stata rintuzzata nella risposta dal sottosegretario Cosimo Ferri. Ora la storia si ripete, addirittura per un articolo sull’Unità. Mambro e Fioravanti, e tanti altri, sono cambiati. Voi no. Peccato.