Berlusconi e la giustizia

Se Casini parla di appeasement drizzare le antenne

Gli albori della politica giudiziaria di Berlusconi e i punti d’intesa mai trovati con la magistratura

Politica - di Alberto Cisterna

14 Giugno 2023 alle 13:36 - Ultimo agg. 15 Giugno 2023 alle 13:37

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Se Casini parla di appeasement drizzare le antenne

Appeasement. Quando un personaggio politico della caratura di Pier Ferdinando Casini adotta questo termine per indicare gli albori della politica giudiziaria di Silvio Berlusconi e i suoi tentativi di trovare un punto di intesa con la magistratura italiana l’attenzione deve essere massima. Non vengono solo alla mente i palinsesti dell’allora Fininvest e le sue interminabili dirette dal palazzo di giustizia di Milano con la contabilità degli arresti e degli avvisi di garanzia o la proposta all’allora sostituto Antonio Di Pietro di rivestire l’incarico prestigioso di ministro dell’Interno.

A intervalli regolari il Cavaliere ha guardato con attenzione a quanto accadeva all’interno della magistratura italiana e non si può dimenticare l’incarico di ministro della Giustizia assegnato a una autorevole toga come Nitto Palma nel 2011. E molta attenzione, da astuto politico, ha dedicato al fronte dell’antimafia, rendendo definitiva la misura, sino ad allora solo temporanea, del carcere duro al 41-bis, inasprendo per ben due volte le pene per il delitto di associazione mafiosa, creando l’Agenzia nazionale per i patrimoni di mafia, approvando il Codice antimafia, varando i pacchetti sicurezza del 2008 e 2009 che hanno praticamente reso le misure di prevenzione il principale strumento di contrasto alle mafie, firmando la cattura di Bernardo Provenzano nel 2006 a ridosso delle elezioni politiche, curando la ratifica nel 2006 della Convenzione di Palermo del 2000 contro il crimine organizzato.

Se a questo si aggiungono i libri scritti da campioni dell’antimafia e pubblicati dalla società editoriali del gruppo o le serie televisive di gran successo prodotte dalle sue reti (Il capo dei capi e Squadra antimafia tra molte altre), è del tutto evidente che l’uomo di Arcore non ha mai mancato di osservare con cura quel mondo, l’area culturale che del sostegno alle toghe aveva fatto la propria mission principale.
Questo non include, ovviamente, alcun giudizio circa gli asseriti contatti con cosa nostra siciliana o con i suoi emissari; non è questo che interessa dell’attività istituzionale del Cavaliere che ha riguardato un parte importante della storia del paese dopo la stagione inquieta e tragica di Mani pulite e delle stragi del 1992 e 1993.

Se ha ragione il generale Mori nel sostenere che nel 1993, dopo le bombe nel continente, “lo Stato era in ginocchio” allora non si può disconoscere alla classe dirigente del tempo (Berlusconi e Prodi in primo luogo) di aver portato a compimento una difficile opera di ricostruzione del paese piegato e piagato dalla corruzione e dalle mafie e in bilico sul trasformarsi in una sorta di Stato fallito di stampo latino-americano. Le sue vicissitudini processuali dimostrano che l’appeasement alla fine è fallito e che ogni tentativo di stringere un’intesa con una parte almeno della magistratura italiana non è andato in porto. Anche questa volta non si discute del fatto se fosse in azione la furba captatio benevolentiae di un pasticcione in mezzo ai guai o alla ricerca di una qualche impunità e di una qualche comprensione, come pur è riuscito ad altri in questi anni dietro l’usbergo di giornali amici e di giornalisti embedded nelle procure.

Il punto vero è che il Cavaliere è stato il primo uomo politico di rilievo nella storia del paese a percepire, quasi a fiutare, che la storia giudiziaria di quegli anni stava consegnando alla Costituzione materiale della nazione un potere giudiziario nuovo, inedito, possente, privo di controllo. Un ordine reso particolarmente robusto e performante grazie al codice di procedura penale del 1989 e alle leggi Martelli-Falcone del 1991 che gli avevano consegnato per intero la responsabilità delle indagini e un potere illimitato sulla polizia giudiziaria; un ordine che è riuscito troppe volte anche a mitigare il controllo giurisdizionale e talvolta in modo onnivoro.

L’inquilino di Arcore aveva, in aggiunta, ben compreso che le lusinghe della stampa e dell’informazione avrebbero sedotto una parte delle toghe che, prima o poi – anzi presto – sarebbero finite in quel triangolo delle Bermude della giustizia (pm – giornalista – poliziotto) che Palamara e Sallusti hanno efficacemente descritto nel Sistema e di sicuro ha giocato le sue carte anche su quel tavolo. Certo, se questo è vero, siamo al cospetto di una clamorosa sconfitta e di un gigantesco errore. Se le leggi ad personam, qualche disinvoltura e una certa spregiudicatezza non avessero posto Silvio Berlusconi nel mirino delle indagini, probabilmente la storia del paese sarebbe stata altra e anche molte delle riforme che, da anni, erano necessarie per il sistema giudiziario italiano non sarebbero arrivate in clamoroso ritardo e solo dopo l’incidente di percorso dell’Hotel Champagne.

E’ stato un errore presentarsi, da indagato e da imputato, quale emblema del garantismo, perché questo ha di fatto indebolito un fronte che cercava di recuperare agibilità politica e consenso sociale. E’ stato un errore optare, in qualche caso, per lo scontro a sportellate con i pubblici ministeri perché questo ha fiaccato l’azione di controllo che sarebbe stata necessaria sul loro operato per impedire eccessi e abusi all’interno della stessa magistratura. E’ stato un errore annunciare riforme che potessero suonare come punitive nei confronti delle toghe e minacciose della loro autonomia e indipendenza.

Con un ulteriore svarione, quello di aver approvato nel 2006 una serie di norme sulle procure, sul procedimento disciplinare, sulle valutazioni di professionalità e altro che hanno costituito la base su cui il malaffare descritto negli ultimi anni ha trovato fondamento e piena legittimazione all’interno della magistratura italiana e a cui la riforma Cartabia ha posto un pur blando rimedio. Probabilmente non poteva andare diversamente.

Probabilmente l’obiettivo era impossibile da raggiungere. Probabilmente hanno giocato contro il Cavaliere una evidente ignoranza dei protocolli di funzionamento della giustizia e un nugolo di pessimi consigli. Probabilmente era il nemico perfetto per alcune toghe, visibile e potente, ma non tanto da poter vincere. Dopo trent’anni si è chiuso un ciclo e un bilancio scevro da partigianerie è ancora molto in là dal poter essere finanche abbozzato.

14 Giugno 2023

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