I veri maestri
La lezione morale di Renato Guttuso: un uomo non di giudica per le idee che ha ma per come le ha servite
Non si è mai rassegnato al quotidiano scandalo dell’uomo offeso
Cultura - di Duccio Trombadori
Correva il 1967: ero poco più che ventenne, in preda ad astratti furoripiù o meno simili a quelli che agitarono molti coetanei della stagione sessantottina. Renato Guttuso aveva scritto su Rinascita un articolo su l’artista e la società che mi aveva suggestionato e in parte infastidito. Al solito modo franco egli se la prendeva con il nichilismo estetico di Marcel Duchamp e Giulio Carlo Argan («evidentemente non pensano da socialisti») e rilanciava una idea che gli era stata sempre cara: «Per noi l’arte non può essere antiumana, nel nostro presente anzi cerchiamo di cogliere i fermenti opposti a tanto pragmatismo. L’arte è umanesimo e il socialismo è umanesimo. Il solo umanesimo possibile è anzi, oggi,… il socialismo».
Guttuso trovava non casuale il nesso tra i movimenti neo-avanguardisti e le nuove forme rivoluzionarie, quali la guerriglia in Sud America e in Africa, le sommosse razziali negli Stati Uniti, e la rivoluzione culturale cinese. Egli polemizzava con chi identificava la rivoluzione «nel suo aspetto iniziale, prevalentemente offensivo e distruttivo»: e condannava come ingiustificata gestualità tutte le forme di estremismo che all’epoca criticavano da sinistra l’Urss e, in Italia, il Pci. Erano argomenti che potevano apparire di retroguardia a chi come me era suggestionato dai miraggi rivoluzionari (Castro, Mao, Ho Chi Minh) e vedeva di malocchio il moderatismo dei governanti sovietici, eredi immeritevoli della mitica rivoluzione di Ottobre.
Mandai una lettera lungamente argomentata a Renato (egli soggiornava come d’abitudine in autunno nella casa di Velate) esponendogli la mia disapprovazione: come si potevano appaiare le parodie rivoluzionarie della estetica neo-avanguardista con i combattenti antimperialisti in Asia, in Africa, in America Latina? Guttuso mi rispose a stretto giro di posta: in modo paterno, ma non paternalistico; affettuoso, ma nemmeno disposto a concedere spazio alle mie intemperanze. E riuscì ad essere persuasivo.
Dopo un lungo argomentare, concludeva così: «Questo è il punto fondamentale oggi per un giovane intellettuale comunista, questa la sua più vera responsabilità: capire che la revisione va fatta dal di dentro di una realtà esistente, facendovi confluire le nuove spinte rivoluzionarie, ma non invece – come mi pare accada anche a te – scivolando in un criticismo che non si differenzia dalla vecchia (e nuova) posizione anticomunista e antisovietica, di quella ininterrotta schiera di insofferenti (per coscienza a volte,a volte per opportunismo) che furono con Trockij ieri, e oggi sono con Mao, e che, ieri contro Stalin, buttano oggi avanti il nome di Stalin, pur di ostacolare la politica dell’Urss» .
Ancora una volta, Renato Guttuso faceva prevalere il vizio della speranza con una rinnovata disposizione pedagogica: l’impegno a diffondere tra i giovani – e nella fattispecie ad un contestatore di famiglia – l’ideologia del Socialismo come solo umanesimo possibile nel mondo moderno. «E’ difficile operare nell’ambito di questa fiducia – aveva scritto – difficile qua e difficile nei paesi socialisti. Ma bisogna saper fare fronte alle difficoltà e non perdersi d’animo al primo intoppo, come gli scolaretti». Il tono sincero di quella accorata passione ideologica e umana, che non aveva paura di assumere generosamente su di sé il coraggio di sbagliare, e con il cuore messo a nudo, fu ben più che una lezione di metodo.
Di lì a pochi mesi scoppiò il Sessantotto. E a differenza di altri che cercavano nel movimento una risposta alla loro ribelle inquietudine, io, dopo un meditato esame di coscienza, andai a chiedere la tessera del Pci per poter diventare, da borghese che ero, un attivista del partito. Quella considerazione inattuale determinò il corso della mia vita successiva: anche quando ne riconobbi i limiti, e cominciarono i ripensamenti seri.
E tuttavia, ancora oggi, la lezione morale di Renato Guttuso mi appare esemplare: un uomo non si giudica per le idee che ha, ma per come le ha sapute servire. In questo senso Renato, che aveva perseguito nel comunismo un ideale laico di fratellanza umana, e non si era mai rassegnato al quotidiano scandalo dell’uomo offeso, si mostrava tenacemente legato al suo Principio – Speranza (la ragione dell’ umanesimo socialista) come messaggio da vivere oltre le frontiere della politica e della ideologia.