Il processo alla segretaria

Giù le mani da Elly Schlein, il problema non è lei ma il Pd

Invece di confrontarsi con la società reale e individuare soluzioni a problemi come la sanità e le pensioni, il Nazareno spara sulla leader per non guardarsi allo specchio. Così vincerà sempre Meloni

Editoriali - di Michele Prospero

6 Giugno 2023 alle 13:00

Condividi l'articolo

Giù le mani da Elly Schlein, il problema non è lei ma il Pd

Dopo ogni burrasca, comincia al Nazareno la solita recriminazione contro il segretario di turno: è tutta tua la colpa. Questa individualizzazione delle pecche e dei meriti nasconde uno dei problemi strutturali del Pd: non avere una visione della politica come dimensione collettiva. Eppure la leadership non è mai la sola ragione del successo di una linea. E nemmeno può diventare l’unica motivazione della sbandata. Latita da tempo un pensiero dell’organizzazione vista come esperienza che trascende il reggente del momento.

Se su Elly Schlein una responsabilità ricade, non è certo quella di aver condotto il partito, dopo appena tre mesi, alla débâcle in un circoscritto turno di amministrative. Più significativo si è rivelato l’impatto della scelta originaria della segretaria di non curare la cicatrizzazione della ferita che si è formata quando il popolo dei gazebo ha ribaltato le preferenze degli iscritti nei circoli. Non si trattava affatto di una vicenda normale. E invece la sua vittoria in campo aperto è stata interpretata come un mandato liberatorio dei cittadini contro la nomenclatura che giustificava la ferma volontà di non ascoltare “quelli di una volta”. Allestire una segreteria numerosa e inesperta, con punte di anonimato nelle biografie, annunciare via Instagram scelte politiche e organizzative importanti, rifuggire insomma dal mestiere di una direzione autentica e autorevole potrebbe condannare l’esperienza di Schlein all’irrilevanza.

Quello che al Pd fa difetto non è un capo ricoperto dalle attenzioni dei media ma la forma-partito, andata distrutta proprio per inseguire il miraggio del leader che fabbrica la narrazione di sé. Il recente voto mostra un partito così nudo da non palesare quasi più sul territorio la consistenza necessaria per sprigionare una vocazione coalizionale. Il vantaggio di cui godeva in passato era proprio quello di avere residui di gruppi dirigenti, pezzi di nomenclatura nei distretti. E invece questo plusvalore di un ceto esperto di amministratori è stato percepito come una tara da nascondere per accarezzare la narrazione di una guida tenue e senza la camicia opprimente di una organizzazione, di gruppi dirigenti, perfino di una sede fisica centrale in cui discutere.

Surreale è che non ci sia stata ancora nessuna rigorosa analisi in merito alle ragioni della brutta caduta delle elezioni politiche, a settembre. Non parlarne è il modo peggiore per reagire. Servirebbe confrontarsi ovunque, e con tante voci. Perché di una disfatta epocale bisogna rendere conto. Gli eredi della fiamma salgono al potere, fanno le prove generali di restringimento autoritario degli spazi del pluralismo e impongono una nitida cesura nella continuità politica e simbolica della Repubblica. Il Pd è finito al tappeto senza più contare su una forza effettiva presente nelle pieghe della società.

Dopo la tornata di maggio la verità, anzi, è che nei luoghi abbandonati dai progressisti è ormai molto più insediata la destra, con il suo ceto politico scadente di imprenditori dell’amministrazione che coltivano disegni di privata potenza ma si muovono in sintonia con gli umori, le paure, gli interessi immediati di volti e storie dimenticate. Nel deserto di radicamento, nella carenza di categorie politiche forti della sinistra, in molte realtà (dalle province toscane al contado emiliano-romagnolo, da Ancona a Terni) il linguaggio protettivo e securitario del nazionalismo non trova più rivali.

Non si tratta di un misterioso vento che non si sa da dove nasca. È un processo politico da analizzare nelle sue cause immediate e in quelle di più lungo periodo. Il Pd, che rimane il soggetto decisivo per l’alternativa, ha assunto una forma che gli impedisce, non dico di organizzare, ma persino di comprendere i disagi, le domande, i bisogni. Quando per dare la sensazione di un radicalismo ritrovato grida che le diseguaglianze sono cresciute, pronuncia parole che risuonano vuote, o persino false, perché declamate con il tipico spirito paternalista della piccola borghesia intellettuale con la puzza sotto il naso.

Nel vissuto dei ceti popolari, nessuno ha mai percepito l’avvio di una battaglia politica e sociale credibile per abbattere le disparità. Il luogo dove le differenze di classe oggi si toccano nel loro tratto più odioso è quello della sanità: oltre agli ormai sterili proclami sul valore del pubblico, nessuna campagna visibile per garantire alla nuda corporeità una parità sostanziale nelle opportunità di cura (tempi delle prestazioni, costi degli esami strumentali) è stata mai condotta.

Nelle aree interne, al deserto di una vita associativa e culturale si aggiunge l’invecchiamento della popolazione che pone come problema più urgente quello della cura, dell’assistenza domiciliare. Con pensioni che sono in larga parte al di sotto dei mille euro al mese, è impossibile pagare badanti o rivolgersi a case di riposo che chiedono il doppio. La società reale con i suoi drammi è però scomparsa dall’azione politica. La sinistra è attrezzatissima sui nuovi valori, i diritti di conio più recente, ma non sa come trattare i vecchi bisogni, le antiche domande di protezione e gli interessi dei ceti produttivi. Il modello di (non) partito prescelto dal Pd incentiva da sempre la fuga dalle volgari esigenze materiali delle persone in carne e ossa per inseguire i riti della partecipazione dei ceti medi cognitivi sedotti con il partito leggero presidenzializzato.

Si può anche scommettere sulla magia della comunicazione che piazza nel mercato politico un nuovo prodotto. Ma lo fanno coloro che non sanno rispondere con razionalità alle crisi di consenso. Non basta una leadership nuova, magari associata a una creativa campagna di marketing, per rimediare a una catastrofe. Questa è un’illusione da neofiti che nasconde una certa vena impolitica. L’arte della confezione del messaggio è di sicuro un valido strumento competitivo nella postmodernità, consentendo in tempi di disintermediazione persino la sensazionale scalata esterna ad un partito. Ma presenta un difetto insuperabile: le tecniche dei nuovi media possono accompagnare una strategia politica, non hanno però la forza teologica di crearne una dal nulla o di esserne il solido surrogato.

Il dato più preoccupante delle amministrative è che ciò che rimane del Pd come modello di organizzazione ha il volto di un evanescente partito di opinione in difficoltà di tenuta che non resiste neppure nelle città un tempo rosse. Il consueto effetto traino, che di norma favoriva i dem nei ballottaggi, declina. Quale che sia l’alleanza raggiunta localmente, il risultato della seconda consultazione non cambia. Il Partito democratico stenta a raccogliere consensi d’opinione e non conta più da tempo sul bacino dovuto a una robusta rappresentanza sociale o di interessi. Con la perdita delle roccaforti tradizionali si estingue, oltre al serbatoio del voto clientelare, ogni sforzo di riconoscimento della buona amministrazione.

Il principale limite, che l’attuale segreteria dovrebbe correggere, è quello di aver cominciato dalla fine, e cioè prendendo per buona la narrazione mediatica di un duello Elly versus Giorgia. Sono state date per scontate tappe che in realtà non lo erano. Il profilo della leadership è infatti una costruzione complessa che richiede un processo lungo di riconoscimento. Solo se non si saltano i passaggi (dell’analisi, dell’organizzazione, della rappresentanza sociale, della politica delle alleanze) si arriverà all’urto tra le due donne al comando come approdo di una capacità concorrenziale riconquistata in una difficile stagione di conflitto. Va bene l’intervento virtuale sul “cambiamento scomodo” che non è certo un “pranzo di gala”, ancor meglio sarebbe discutere apertamente nei luoghi fisici per costruire un’alternativa.

Il settembre nero è stato archiviato troppo in fretta. Lo hanno gestito come un incidente banale che si poteva riassorbire con i riti propiziatori che attorno ai gazebo celebrano una divinità nuova. La carenza di iniziativa, e l’abbandono di ogni velleità di ricostruzione della macchina, enfatizzano il peso paralizzante delle incertezze tattiche congiunturali, che vedono barcollare ogni ipotesi di alleanza tra i veti incrociati sollevati dai possibili interlocutori. Servirebbe al Pd un atto di vera politica: penetrare al cuore della disfatta per capirne le ragioni, e rispondere così al colpo ricevuto con il progetto di ricostruzione di una sinistra popolare.

6 Giugno 2023

Condividi l'articolo