Il portavoce dell’UNICEF Italia
“Il mio viaggio tra i bambini di Ucraina, che non sognano perché non dormono più”, parla Andrea Iacomini
«In “La forza sia con te”, il portavoce di Unicef Italia racconta la missione nel paese devastato dalla guerra e gli incontri i piccoli eroi a cui è stata rubata l’infanzia»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
C’è un suono che scandisce il tempo in Europa, un metronomo metallico che non batte i secondi, ma le possibilità di sopravvivenza. È il suono di una sirena, seguito da una voce asettica che esce da uno smartphone. E poi c’è il silenzio. O meglio, il rumore del freddo. Perché l’inverno, in guerra, non è solo una stagione meteorologica: è un’arma, è una condanna. Andrea Iacomini, giornalista e Portavoce dell’UNICEF Italia, è tornato dall’Ucraina con un bagaglio che non si può pesare al check-in: sguardi, disegni infantili, mani strette nel buio. Tutto questo è confluito nel suo nuovo libro, “La forza sia con te. Cronaca di una missione in Ucraina”, un reportage narrativo che sfuma tra il diario intimo e la testimonianza collettiva. In questa conversazione, Iacomini ci accompagna dai bunker di Kharkiv alle tende allagate di Gaza, seguendo un unico filo conduttore: il gelo che sta calando sull’infanzia violata, mentre il mondo rischia di voltarsi dall’altra parte per abitudine o indifferenza.
Andrea, il titolo del tuo libro, “La forza sia con te”, evoca la saga di Star Wars. Da dove nasce questa scelta?
Nasce da un paradosso che ti colpisce allo stomaco appena metti piede in Ucraina. Lì, ogni cittadino ha installato sul proprio smartphone una app governativa per gli allarmi aerei, “Air Alert”. È il compagno di vita più fedele e terribile che si possa immaginare. Quando i radar intercettano un missile o uno sciame di droni, l’app urla. Si corre, ci si nasconde. Ma è quello che succede dopo che mi ha ossessionato. Quando il pericolo cessa, quella stessa voce metallica pronuncia una frase: “La forza sia con te”. Non è una citazione pop. È un mantra. È una formula di resistenza quotidiana ripetuta milioni di volte al giorno. Ho deciso di trasformarla nel filo conduttore del racconto perché racchiude l’assurdità della guerra moderna: la tecnologia che ti avvisa della morte imminente e poi ti augura la forza per rialzarti, uscire dal bunker e ricominciare a vivere fino alla sirena successiva. Quella frase è un invito a non spezzarsi. Ho voluto raccontare chi, quella forza, la deve trovare ogni mattina in un caffè solubile bevuto al buio, o in un compito di matematica fatto sottoterra.
Sei arrivato in Ucraina via terra, attraversando la Moldavia. Scrivi che la vera frontiera non è quella geografica. Cosa intendi?
Esatto. Passando per Chisinau ti lasci alle spalle una pace malinconica e il paesaggio cambia in modo impercettibile: i campi sono gli stessi, il cielo è lo stesso. Poi però inizi a vedere i tralicci divelti, i primi blocchi di cemento, i soldati. Ma la vera frontiera è emotiva. Si varca nel momento esatto in cui incroci gli occhi di chi è rimasto. È uno sguardo che noi, che viviamo nella pace, abbiamo dimenticato. È lo sguardo di chi ha imparato a convivere con l’imponderabile. A Mykolaiv, la “Città Eroina” che ha fermato l’avanzata russa verso Odessa, ho capito che la guerra ha il colore dei fiori. Sembra una follia, vero? Eppure, lungo strade grige, tra palazzi sventrati che mostrano le viscere degli appartamenti, ci sono donne anziane che vendono mazzi di crisantemi e rose. Finestre cieche coperte dal compensato fanno da sfondo a questi petali. Non è business, non ci si arricchisce vendendo fiori all’inferno. È un atto di resistenza estetica. Quei fiori servono a dire: “Noi siamo ancora qui, e la bellezza esiste ancora”. Servono a far sembrare normale ciò che normale non è più da oltre mille giorni.
Nel libro parli spesso di una “normalità capovolta”. Ci racconti l’incontro con Katrina?
Katrina è una ferita aperta nella mia memoria. L’ho incontrata in una scuola di Kobzartsi, una periferia devastata dove il concetto di edificio scolastico è ormai un ricordo. Katrina è una bambina con disabilità. Non poteva correre tra le macerie, non poteva giocare come gli altri. L’ho trovata seduta dentro una vecchia Trabant verde, ferma, parcheggiata come un relitto in mezzo al nulla. Era il suo rifugio, la sua sedia a rotelle immobile. Mi ha guardato con due occhi azzurri che illuminavano l’abitacolo e mi ha allungato un quaderno con scritto “grazie”. Un semplice grazie. Io sono rimasto pietrificato. Io, l’adulto venuto da lontano, il rappresentante di un’organizzazione internazionale, non sono riuscito a risponderle “prego”. Mi sono vergognato. Perché non ho fatto nulla per fermare quel fumo nero che si alza all’orizzonte ogni giorno. Che diritto abbiamo noi di accettare il ringraziamento di una bambina costretta a vivere in un’auto perché il mondo degli adulti ha deciso di bombardare la sua infanzia?
C’è un episodio molto forte che riguarda i disegni dei bambini.
A Kryvy Rih sono entrato in uno dei nostri “spazi sicuri” sotterranei. Lì ho conosciuto Anastasia, una bambina dalle treccine bionde e dalla concentrazione assoluta. In questi luoghi cerchiamo di far esorcizzare la paura attraverso l’arte. Abbiamo fatto un esercizio semplice: disegnare la sagoma della propria mano su un foglio e scrivere un desiderio su ogni dito. Mi aspettavo sogni da bambini: la bicicletta, un viaggio, diventare calciatori. Invece, mentre leggevo quei foglietti, ho sentito il gelo scendermi addosso. Su quelle dita, trenta bambini, inclusa Anastasia, avevano scritto quasi tutti la stessa parola: “Dormire”. In Ucraina, da più di mille giorni, le notti si passano nei rifugi. Il sonno non è riposo, è un’attesa angosciante spezzata dalle sirene, dalla corsa nei corridoi, dal terrore che il soffitto ti crolli addosso. Nel nostro mondo ingiusto, c’è chi va a dormire per sognare un futuro migliore, e chi, come Anastasia, sogna semplicemente di poter dormire. Hanno rubato loro anche il diritto all’incoscienza notturna.
I dati che arrivano dall’Ucraina parlano di un sistema educativo al collasso. Cosa significa questo per il futuro del Paese?
I numeri sono bollettini di guerra contro il futuro. Secondo i dati delle Nazioni Unite e dell’UNICEF, dal febbraio 2022 oltre 2.800 scuole sono state danneggiate o distrutte. Solo quest’anno, nel 2025, ne abbiamo contate più di 340 colpite. Durante questo anno scolastico, 4,6 milioni di bambini stanno affrontando ostacoli enormi all’istruzione. Quasi un milione di loro studia esclusivamente online. Ma studiare online in Ucraina non è come la nostra DAD. Lì manca la luce, manca la connessione perché le infrastrutture energetiche sono bersagli. Questi bambini li chiamo i “Nuovi Umani”. Stanno imparando la matematica sottoterra mentre fuori il mondo impazzisce. Stanno sviluppando una resilienza che non è innata, ma è una muscolatura emotiva che sono stati costretti a far crescere troppo in fretta. Sanno distinguere il sibilo di un drone Shahed da quello di un missile balistico. La scuola dovrebbe essere un luogo protetto, un’ancora di salvezza. Invece, il 22 ottobre scorso, un missile ha colpito un asilo a Kharkiv mentre c’erano 48 bambini dentro. Fortunatamente non ci sono stati feriti fisici, ma le ferite invisibili? Quelle non si suturano in pronto soccorso.
Nel libro racconti anche di Radomyr. La sua storia tocca il tema delle radici.
Radomyr è un piccolo eroe di Mariupol, la città martire. È fuggito con i nonni, Natalia è la sua custode. I suoi genitori sono rimasti lì, dispersi. Radomyr mi ha colpito perché, nonostante la tragedia, ha una lucidità disarmante. Ha detto ai nonni: “Ho deciso di restare con voi”, dopo averli sognati. Vive in un dormitorio a Dnipro, in una stanza che è diventata tutto il suo universo. Quando gli è stata offerta la possibilità di venire in Italia, in un luogo sicuro, lui si è rifiutato. Perché la sua terra, nonostante le bombe, è l’unica radice che gli è rimasta. È l’unico luogo dove può aspettare i suoi genitori, o almeno il loro ricordo. A Dnipro la notte è un susseguirsi di allarmi, eppure loro restano. Si chiudono in bagno, tra le piastrelle fredde, sperando che i vetri non esplodano. In quelle ore sospese tra la vita e la morte, la dignità di queste persone è monumentale.
“Fa freddo”. È l’incipit di molte tue riflessioni recenti. L’inverno è arrivato ed è un nemico in più. Qual è la situazione attuale?
L’inverno è una condanna a morte silenziosa. Ad ottobre 2025 ci sono stati 177 attacchi alle infrastrutture energetiche. Circa il 50% della capacità di generazione elettrica dell’Ucraina è offline. In regioni come Chernihiv, Sumy e Kharkiv, che chiamiamo “cold spots”, fa già un freddo polare. Senza elettricità non funzionano le pompe dell’acqua, non funziona il riscaldamento. Immagina una madre che deve scaldare il latte per il suo neonato e non ha corrente. Immagina un ospedale dove i macchinari si spengono. L’UNICEF sta lavorando freneticamente per distribuire generatori, coperte, abbigliamento termico e contributi in denaro per permettere alle famiglie di comprare legna. Ma la paura è tangibile. Il freddo uccide quanto le bombe, a volte più lentamente e dolorosamente.
Parlando di freddo e di bambini sotto assedio, il pensiero corre inevitabilmente anche a Gaza. Anche lì l’inverno sta arrivando.
Il filo conduttore è proprio questo: il freddo che si abbatte su corpi già indeboliti dalla fame e dalla guerra. La situazione a Gaza è catastrofica e l’arrivo dell’inverno rischia di trasformare una crisi umanitaria in una strage. I dati che abbiamo appena diffuso sono allarmanti.
A ottobre, i nostri screening hanno identificato quasi 9.300 bambini sotto i 5 anni colpiti da malnutrizione acuta. C’è stato un leggero calo rispetto a settembre, ma i tassi di ricovero sono ancora cinque volte superiori a quelli di inizio anno. Ma il dato che mi toglie il sonno è un altro: un’indagine dell’UNICEF ha rivelato che 2 bambini su 3 sotto i cinque anni consumano solo due o meno gruppi alimentari al giorno. Mangiano solo pane o riso. Niente proteine, niente vitamine. Ora, immaginate questi corpi minuti, privi di riserve di grasso e muscoli a causa della malnutrizione, esposti al freddo e alla pioggia nelle tende. Senza difese, il rischio di ipotermia è altissimo. Un bambino malnutrito che prende freddo ha probabilità di sopravvivenza drasticamente ridotte.
Oltre alla fame, c’è il problema dei ripari. Come si affronta l’inverno in una tendopoli allagata?
Non si affronta, si subisce. Le piogge hanno già iniziato a trascinare rifiuti e liquami attraverso le tende dove vivono migliaia di famiglie sfollate. L’igiene è inesistente. Malnutrizione e malattie creano un circolo vizioso letale: se sei malato ti nutri peggio, se sei malnutrito ti ammali prima. Come UNICEF abbiamo portato tende, coperte e vestiti invernali dopo il cessate il fuoco, ma non basta. Le forniture invernali sono ferme alle frontiere. C’è bisogno che gli aiuti entrino adesso. Non tra un mese, potrebbe essere troppo tardi. Chiediamo con forza che vengano aperti tutti i valichi, che si permetta l’ingresso di pezzi di ricambio per riparare le fognature e gli acquedotti. È una corsa contro il tempo e contro il gelo.
Torniamo al libro per concludere. Scrivi che “l’apatia è il vero contrario dell’amore”. Qual è il messaggio che vuoi lasciare con “La forza sia con te”?
Viviamo in un’epoca in cui la guerra sembra essere diventata l’unica alternativa possibile, un rumore di fondo a cui ci siamo assuefatti. Questa è l’apatia. Ed è pericolosa quanto un’arma. Ho scritto questo libro perché non possiamo permetterci di dimenticare Anastasia, Radomyr, Katrina, o i bambini di Gaza senza nome che tremano nelle tende. Il mio dovere di testimone, e il nostro dovere come esseri umani, è tenere accesa la luce su queste storie. Nel viaggio di ritorno in treno verso Odessa, nel dormiveglia, mi è sembrato di sentire un pianoforte. Ho immaginato un bambino, Nykola, che suona nel cuore della notte per parlare con il padre al fronte. Forse era un sogno, forse un ricordo, ma racconta la verità di questi popoli: la ricerca ostinata di una melodia in mezzo al frastuono. “La forza sia con te”, ripete l’app. Spero che un giorno, presto, quella voce cambi messaggio e che dica: “Uscite dalle vostre case, dai rifugi, dai sotterranei. La guerra è finita. La pace sia con tutti voi”. Fino ad allora, la loro forza deve diventare la nostra coscienza. Non lasciamoli soli al freddo.