Il no alla denuncia di Magi

La capriola della Consulta: o tutta la Camera o niente

Nel bocciare il ricorso del deputato di +Europa, che lamentava la trasformazione del ddl sicurezza in decreto, i giudici scrivono che doveva essere l’intera Aula a sollevarsi

Politica - di Salvatore Curreri

3 Dicembre 2025 alle 16:30

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Photo credits: Andrea Panegrossi/Imagoeconomica
Photo credits: Andrea Panegrossi/Imagoeconomica

Per quanto fosse prevedibile l’esito, le motivazioni con cui la Corte costituzionale (ordinanza n. 178 depositata l’altro ieri) ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dal deputato Riccardo Magi lasciano comunque perplessi. Come si ricorderà, il conflitto è stato sollevato a seguito della singolare e improvvisa decisione del governo di trasformare in decreto legge (n. 48 dell’11 aprile) il disegno di legge c.d. sicurezza in quel momento all’esame del Senato e di cui peraltro era stata già decisa la calendarizzazione in Aula per l’approvazione finale. Una decisione con cui il governo ha voluto lanciare un segnale di forza al proprio elettorato, molto probabilmente dovuta al fatto che, a causa delle modifiche introdotte dal Senato, il disegno di legge sarebbe dovuto inopinatamente ritornare per una terza lettura alla Camera dei deputati. Un passaggio ormai da considerare irrituale, quasi scandaloso, considerato che – statistiche alla mano – è ormai prassi consolidata che i testi legislativi siano esaminati dalla prima Camera e semplicemente ratificati dalla seconda, senza che quest’ultima vi introduca alcuna modifica.

Il deputato Magi, dunque, lamentava la violazione delle sue prerogative parlamentari, sia per l’illegittima decisione di trasformare un disegno di legge in decreto legge, e cioè di far diventare straordinariamente necessario e urgente l’entrata in vigore di disposizioni che per più di un anno non erano state considerate tali, sia perché – come detto – in tal modo si impediva il passaggio del disegno di legge alla Camera dei deputati d’appartenenza, indirizzandolo piuttosto verso il binario morto dove tuttora si trova e resterà fino alla fine della legislatura.
La Corte, come detto, ha dichiarato inammissibile tale ricorso. Una decisione prevedibile e prevista, visto che questo è stato l’esito dei precedenti diciassette conflitti di attribuzioni presentati da singoli parlamentari. Ciò nonostante, le principali due motivazioni sostanzialmente addotte dalla Corte lasciano ancor di più delusi.

Per la Corte, infatti, in primo luogo a lamentarsi della decisione del governo avrebbe dovuto essere non il singolo parlamentare ma esclusivamente la Camera nella sua interezza. Ora anche un non giurista – o forse proprio perché non giurista – stenterebbe a comprendere come sia realistico sostenere che la Camera, in un improvviso sussulto di legalità costituzionale, possa ricorrere contro una decisione del governo che esso stesso sostiene. C’è nel ragionamento della Corte un evidente distorsione di prospettiva del sistema che la porta a considerare la Camera dei deputati come un organo politicamente omogeneo, quando invece, come pare evidente, ogni assemblea di rappresentanza politica è divisa al suo interno tra maggioranza e opposizione proprio in relazione al rapporto di fiducia al governo. Ritenere quindi che solo la Camera dei deputati nella sua interezza – e non il singolo parlamentare, nemmeno in via complementare – possa sollevare conflitto di attribuzioni contro il Governo per avere trasformato improvvisamente un disegno di legge in decreto legge – è quanto di più irrealistico si possa sostenere, anche perché una simile ribellione non potrebbe che ripercuotersi sul rapporto di fiducia tra Parlamento e Governo.

In secondo luogo, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso perché le violazioni lamentate dal deputato Magi non costituiscono una sostanziale negazione o un’evidente menomazione delle sue prerogative costituzionali. Anche in questo caso siamo di fronte ad un refrain della Corte, a dimostrazione di come essa abbia fissato l’asticella per l’ammissibilità del conflitto di attribuzione ad un’altezza così elevata da essere praticamente irraggiungibile, giacché implica ipotesi di violazione dei diritti del parlamentari così gravi da essere quasi inverosimili (ad esempio l’abuso da parte del Presidente del potere di espulsione dall’Aula oppure la negazione della garanzia della insindacabilità a fronte di episodi manifestamente da essa tutelati), lasciando per il resto la loro tutela all’iniziativa della Camera d’appartenenza o del suo Presidente, con il concreto rischio di possibili lesioni da parte della volontà prevaricatrice o arbitraria della maggioranza. Addirittura, la Corte invoca a sostegno della mancata violazione dei diritti del parlamentare il fatto che il deputato in questione ha potuto contestare la decisione del governo, presentando e discutendo una questione pregiudiziale, come se paradossalmente il potersi lamentare di una decisione contribuisse di per sé a renderla legittima!

Un’ultima considerazione. Proprio perché alla luce dei precedenti l’esito era in certa misura scontato, quello che al massimo ci si sarebbe potuto attendere dalla Corte era almeno una considerazione incidentale – quello che i giuristi chiamano obiter dictum – in cui i giudici di Palazzo della Consulta rilevassero la problematicità o, se si vuole, l’eccentricità della decisione di trasformare improvvisamente in straordinariamente necessario ed urgente ciò che per più di un anno non lo era stato. Il fatto che la Corte costituzionale abbia rinunciato anche a questo “lieve buffetto” al Governo dimostra a mio modesto parere come la sua giurisprudenza costituzionale, in questo come in altri e forse più rilevanti casi (penso alle sentenze sul c.d. giusto procedimento legislativo), sia una delle concause dello stato comatoso in cui versa la funzione legislativa delle Camere.

3 Dicembre 2025

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