Il responsabile Università e Ricerca Pd

“Il Pd in ascesa vince e convince, la nostalgia del Lingotto di Veltroni non ha senso”, parla Alfredo D’Attorre

“Campania e Puglia conquistate con percentuali bulgare: la sfida a Meloni è aperta. Anacronistico pensare di tornare al quietismo dei sedicenti riformisti. Schlein ha rimesso il partito in contatto col Paese”

Interviste - di Umberto De Giovannangeli

26 Novembre 2025 alle 10:00

Condividi l'articolo

Photo credits: Stefano Carofei/Imagoeconomica
Photo credits: Stefano Carofei/Imagoeconomica

Alfredo D’Attorre, responsabile Università e Ricerca nella Segreteria nazionale del Partito Democratico. Quale lettura politica complessiva va data dei risultati delle elezioni regionali in Puglia, Campania e Veneto?
Il messaggio è molto chiaro: quando si passa dalle discussioni sui giornali o in televisione al voto reale dei cittadini l’alleanza progressista è competitiva e non appare affatto sconnessa dall’Italia. La partita per l’alternativa è apertissima. Al Sud Fico e Decaro vincono con margini di vantaggio che il centrosinistra storicamente non ha mai avuto – tranne nel caso particolare della riconferma dei Presidenti uscenti in piena pandemia -, mentre in Veneto la coalizione progressista risale quasi al 30%. In questo quadro, il risultato del Pd è dappertutto molto solido e in netta crescita rispetto alle precedenti regionali. Nonostante il crollo dell’affl uenza, persino in valore assoluto nelle tre regioni il Pd guadagna complessivamente circa 60mila voti rispetto alle precedenti regionali. A fronte di questo, Meloni subisce una secca sconfitta con il suo candidato in Campania, dove la lista di FdI viene quasi raggiunta da Forza Italia, mentre il suo partito viene staccato dalla Lega in Veneto. C’è un unico dato preoccupante.

Quale?
La crescita dell’astensionismo. Oltre agli elementi strutturali, sul dato di questa tornata incide forse anche una specifica crisi del regionalismo italiano, su cui bisognerebbe riflettere. Peraltro, il modello simil-presidenziale adottato nelle Regioni, che la destra vorrebbe imitare a livello nazionale con il premierato e la nuova legge elettorale, non sembra incentivare la partecipazione dei cittadini. In generale, sono sempre più convinto che le prossime elezioni politiche si giocheranno sulla capacità delle due coalizioni di recuperare una parte dell’astensionismo, ben più che sull’inseguimento di un centro moderato che mi sembra più forte nelle redazioni dei giornali che nella società reale.

Il dibattito sul voto nel centrosinistra s’intreccia con quello innescato da Romano Prodi con la sua affermazione che la sinistra ha voltato le spalle al Paese. Non è vero che il Pd ha smarrito la sua vocazione originaria?
Ma davvero pensiamo che ci sia una vocazione originaria del Pd che oggi, se riscoperta, ci metterebbe in sintonia con la maggioranza del Paese? Anzitutto, conviene ricordare che, dalla sua fondazione nel 2007, il Pd ha partecipato fi – nora a 4 elezioni politiche: per tre volte ha perso in maniera piuttosto netta e solo una volta, con Bersani nel 2013, ha pareggiato. A ciò si aggiunga che l’impianto neo-liberale del 2007 e del Lingotto è diventato anacronistico non oggi, ma con la crisi globale del 2008, l’anno dopo. Oggi siamo in un altro mondo, per ragioni talmente evidenti da non dover neppure essere richiamate: con tutto il doveroso e sincero rispetto per i protagonisti di altre stagioni, fa tenerezza l’idea che la soluzione sia quello di guardare indietro. Non avrebbe senso neppure se avessimo alle spalle un passato luminoso di vittorie.

“Scandalo italiano: la sinistra vuole tassare gli ultra-ricchi”. È il titolo di prima pagina de l’Unità in riferimento alla patrimoniale che indigna la destra, ma non solo la destra. È ripartito il fuoco amico su “Schlein sinistrorsa, succube di Landini”. Come la vede?
La Segretaria mi pare abbia dato in questi 3 anni prova di non essere succube di nessuno, ma di guardare alla sostanza dei problemi. Landini, come altri nella sinistra europea e mondiale, ha posto il tema di una tassazione dei grandi patrimoni per redistribuire il carico fi scale. La mia personale opinione è che l’esigenza sia giusta, ma che dobbiamo andare oltre il concetto di patrimoniale. È una parola che in Italia viene utilizzata come una clava per alimentare le paure di quel che resta del ceto medio. Penso peraltro che la priorità non sia tanto quello della tassazione una tantum dei grandi patrimoni (che peraltro, in assenza di un’armonizzazione fi scale almeno a livello europeo, verrebbero in gran parte de-localizzati), ma quello di ristabilire una vera progressività nel prelievo Irpef, a vantaggio dei redditi medio-bassi e a svantaggio di quelli alti. Parallelamente a questo, bisognerebbe portare anche le rendite finanziarie all’interno della tassazione dei redditi. La conseguente redistribuzione del carico fiscale sarebbe piuttosto importante, oltre che strutturale.

Come un mantra, ripetuto ossessivamente, si sostiene, anche dentro il Pd e nella stampa mainstream, che la segreteria Schlein starebbe tradendo la cultura riformista. Che vuol dire oggi riformismo?
È una parola il cui significato è stato completamente snaturato. In origine indicava la posizione di chi voleva riformare il capitalismo, a differenza di chi voleva mantenerlo com’era e di chi voleva abbatterlo con la rivoluzione. Da qualche tempo la parola sembra diventata invece sinonimo di moderatismo o addirittura di conservazione. I riformisti veri di una volta, quelli che promuovevano le riforme e non le contro-riforme, apparirebbero a parte dei sedicenti riformisti di oggi come dei pericolosi estremisti. C’è una certa declinazione contemporanea del riformismo, che è in realtà una forma di quietismo, totalmente pacificata con la configurazione attuale del capitalismo e con i suoi poteri interni e internazionali

Perché il Pd dà un giudizio così negativo della manovra di bilancio mentre il governo viene lodato da Moody’s e dalle altre agenzie di rating?
Le agenzie di rating hanno già dimostrato altre volte di avere lo sguardo corto. L’austerità di bilancio che a loro piace ha già azzerato la crescita e gli investimenti, Pnrr a parte. E senza crescita un debito pubblico come quello italiano, molto superiore al Pil, alla lunga torna a salire in percentuale, riaprendo dubbi sulla sostenibilità. La quarta legge di bilancio del governo Meloni è la fotografi a di una totale rassegnazione di fronte al declino italiano. L’alleanza progressista dovrà interpretare anzitutto un’alternativa a questa rassegnazione.

Come valuta il piano di pace per l’Ucraina proposto da Trump?
È un piano dietro il quale sono evidenti le pulsioni affaristiche piuttosto che le accortezze diplomatiche. Purtroppo, è l’unico piano che c’è, il che inchioda i principali Paesi europei alla responsabilità della loro inazione e subalternità. L’errore capitale è stato quello di non accompagnare il sacrosanto sostegno militare all’Ucraina per difendersi dall’aggressione russa a un’iniziativa politica per indicare una via d’uscita al conflitto. È stato imperdonabile affidare solo a Trump l’interlocuzione con Putin riguardo un conflitto che si svolge sul territorio europeo. Nei quasi quattro anni trascorsi dall’inizio della guerra l’Unione europea non ha saputo o voluto neppure individuare una personalità a cui affidare ufficialmente il compito di tentare una mediazione tra russi e ucraini. Temo che il giudizio della Storia sarà molto severo sulle attuali classi dirigenti europee. E credo che in molti casi sarà anticipato da quello degli elettori.

Non è condivisibile lo sforzo della Meloni di fare da ponte tra Trump e l’Unione europea?
Questo presunto ponte è perfino più improbabile di quello di Salvini sullo Stretto. Semplicemente non esiste. La Meloni ha scelto l’ubbidienza a Trump e lavora per portare la Commissione von der Leyen-Fitto sulla stessa linea. Impresa che peraltro non richiede particolari sforzi, come dimostra l’orientamento della Commissione europea su tutti i dossier cruciali: dazi, acquisto di armi e gas dagli Stati Uniti, deregulation delle big tech, detassazione delle multinazionali americane.

Le minacce di guerra ibrida provenienti dalla Russia non danno ragione a chi sostiene la necessità del riarmo?
La cosiddetta guerra ibrida segnala il ritardo drammatico dell’Italia e dell’Europa in termini di sovranità digitale. Non si affronta acquistando armi convenzionali dagli Stati Uniti e portando la spesa militare a livelli incompatibili con la sopravvivenza di qualsiasi forma di welfare state e di coesione sociale. È piuttosto un tema che richiede un investimento in ricerca, tecnologia, politica industriale. Per dirlo in una formula grossolana: servono più ingegneri e informatici, non più carri armati.

Cosa pensa del dibattito sulla leadership del centro-sinistra e sulla scelta del candidato-premier?
È un tema che può essere risolto solo dagli elettori. O attribuendo la guida della coalizione al leader del partito più votato o facendo prima delle elezioni le primarie di coalizione. Chi immagina soluzioni che prescindano dalla partecipazione della nostra gente si metta l’animo in pace: non sarà qualche salottino di ottimati a decidere.

Perché si avverte tanto scetticismo attorno a Schlein in certi ambienti nonostante i risultati ottenuti?
Paradossalmente gli indiscutibili risultati ottenuti – Pd in netta risalita in tutte le competizioni elettorali, Comuni e Regioni strappati alla destra, costruzione di una coalizione larga che sembrava impossibile tra veti e diffidenze, riapertura di un dialogo con interi settori della società a cui il Pd aveva voltato le spalle – aumentano la diffidenza di taluni nei confronti della Schlein. Perché i risultati rafforzano l’autonomia politica sua e del partito: ascoltare tutti e poi decidere con la propria testa, pensando agli elettori, non solo a pochi interlocutori tradizionali. È questo che non viene accettato.

Il campo largo dovrebbe rendersi disponibile a un confronto sul cambiamento della legge elettorale?
Non vedo perché dovrebbe essere cambiata la legge elettorale nell’ultimo anno di legislatura e nell’imminenza delle lezioni politiche. Peraltro, non per andare verso un sistema proporzionale, come viene talora detto in maniera truffaldina, ma per tornare a un maggioritario simil-Porcellum, con il quale la destra pensa di avere qualche possibilità in più di evitare la sconfi tta alle prossime elezioni. Quando una maggioranza verso la fi ne della legislatura inizia a parlare di legge elettorale, vuol dire che è veramente alla frutta: l’obiettivo non è più convincere gli elettori con l’azione di governo e i provvedimenti concreti, ma limitare i danni con i marchingegni elettorali.

26 Novembre 2025

Condividi l'articolo