L'intervista
Intervista a Stefano Levi Della Torre: “Hamas e Israele terroristi gemelli”
«Nel Sionismo e tra gli israeliani è avvenuta una mutazione. L’orgoglio iniziale di affermare per sé il diritto universale di ogni popolo a esistere, riconosciuto e indipendente, si è rovesciato nella protervia di negare invece ad altri, ai Palestinesi, lo stesso diritto universale»
Esteri - di Umberto De Giovannangeli
Stefano Levi Della Torre, saggista, critico d’arte, è tra le figure più autorevoli, sul piano culturale e per il coraggio delle sue posizioni, dell’ebraismo italiano.
Saranno trattati come terroristi. È l’avvertimento lanciato dal ministro della Sicurezza nazionale israeliano, Itamar Ben-Gvir, contro la Global Sumud Flotilla. Cosa raccontano queste parole?
Una considerazione sul momento. Se come credo l’aggressione di Hamas del 7 ottobre aveva tra i suoi obiettivi quello di contrastare gli Accordi di Abramo, cioè la distensione tra Israele e Paesi arabi, con l’attacco di Israele sul Qatar, che ha riacceso la tensione con i regimi arabi, è Israele stesso che, volendo colpire Hamas nel Qatar, si assume in proprio l’obiettivo di Hamas, quello di far fallire gli accordi di Abramo proposti da Trump. Il Qatar promuove la mediazione, ma la mentalità del governo Netanyahu-Ben -Gvir è nemica della mediazione. Analogamente, la minaccia con parole e droni contro la Flotilla ne farà fallire lo sbarco, ma ne potenzia la giusta funzione di critica e propaganda. Per Netanyahu-Ben- Gvir la guerra non è la prosecuzione della politica con altri mezzi ma la soppressione della politica. Con danno strategico credo irrimediabile. Ma veniamo all’accusa di terrorismo lanciata da Ben- Gvir contro la Flotilla.
Un’accusa letale, seguita da due attacchi alla Flotilla.
“Terrorismo” è un’azione letale volta a produrre un’insicurezza radicale e diffusa in un’intera collettività, in cui chiunque si senta sotto minaccia e senza riparo pur che abbia la più vaga contiguità fisica o di appartenenza o etnica o religiosa o politica con l’obiettivo colpito. Questo è il terrorismo praticato da Hamas la mattina del 7 ottobre 2023, che ha precipitato gli Israeliani nell’angoscia. È il terrorismo applicato da Israele giorno dopo giorno, con molto maggiore efficienza e per molto più tempo, sulla popolazione palestinese nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania. È un terrorismo fatto di bombardamenti indiscriminati e della distruzione indiscriminata della possibilità di vita, anzi di sopravvivenza della popolazione. La giustificazione, se così si può dire, sarebbe che i danni mortali alla popolazione siano “effetti collaterali” della plausibile rivalsa contro Hamas, mentre a me sembra che la lotta contro Hamas sia il pretesto per continuare la guerra di cui sopravvive il governo Netanyahu e aspira a farsi regime, e soprattutto il “pretesto collaterale” all’obiettivo principale, che è quello della soluzione finale della questione palestinese con lo sterminio e la cacciata dei palestinesi dalla Palestina. Ora, Ben-Gvir si avvale in primo luogo del riflesso condizionato per cui il terrorismo è quello degli altri. Ma questo può convincere solo chi è intimamente interessato a credergli, evitando di vedere la logica del terrorismo negli atti compiuti da Israele per distruggere e cacciare i Palestinesi dalle loro terre, e magari preferisce pensare per “amor di patria” che quei fatti non siano reali ma calunnie antisemite. In secondo luogo, Ben- Gvir è razzista, è tra quelli che dichiarano che i Palestinesi vadano trattati come le bestie (ammesso che sia plausibile bombardare e affamare le bestie) per cui gli è naturale l’idea della responsabilità collettiva di chi ha la “colpa” genetica e geografica di essere nato palestinese, in maniera affine al criterio che i nazifascisti applicarono agli ebrei, e ritiene che i Palestinesi siano imputabili di terrorismo fin dalla nascita, per cui chiunque voglia soccorrerli collabora col terrorismo e dunque è terrorista, e lo è quindi la Flotilla platealmente intenzionata al soccorso. Ma penso che i Ben- Gvir siano convinti, in buona fede, come lo furono tanti nazisti, persuasi di avere negli ebrei dei nemici, prima che politici, genetici.
Un tempo, Tashal, l’esercito israeliano, era una delle istituzioni che univano Israele, al di là dell’appartenenza politica. Oggi non è più così. E anche dentro l’esercito crescono i “signor No” alla guerra di Netanyahu.
Questo fatto è inedito e riflette il fatto che l’esercito israeliano è di leva, di popolo, e ne riflette la varietà di posizioni. E dunque riflette anche la parabola del sionismo, o meglio dei sionismi. Il sionismo in prevalenza laico-socialista che ha fondato lo Stato di Israele nel 1948 con l’appoggio internazionale, aveva come accento prevalente quello di affermare positivamente il diritto degli Ebrei dopo la Shoà di poter contare su un luogo limitato dove fossero finalmente in maggioranza. Una novità, dopo 2000 anni di dispersione come minoranza vulnerabile in seno ad altri popoli, in seguito alla distruzione del Tempio di Gerusalemme e dello Stato ebraico ad opera dei Romani nel 70 dopo Cristo. Certo, la nascita di Israele è stata una catastrofe per gli abitanti della Palestina a cui ha sottratto territorio cacciandoli anche con la violenza e rendendoli profughi a centinaia di migliaia. Però con la nascita di Israele è nata una nuova nazione, gli Israeliani, la cui percezione e sentimento principali erano la conquista del proprio diritto all’esistenza. E questa prevalente idea positiva ha indotto gli Israeliani a percepire i Palestinesi, più che come vittime, come impedimento al proprio diritto di esistere, e ha reso difficile considerare i diritti dei Palestinesi e le proprie responsabilità verso di loro. Tanto più che l’ostilità aggressiva dei paesi arabi circostanti accentuava negli Israeliani più la sensazione di doversi difendere piuttosto che di aver offeso occupando terre palestinesi per esistere. Quale mutazione è avvenuta da allora ad adesso nel Sionismo e tra gli israeliani? Che il sionismo fondatore laico-socialista ha via via ceduto il campo a un sionismo clerico-nazionalista o persino clerico –fascista ora al governo; che l’orgoglio iniziale di affermare per sé il diritto universale di ogni popolo ad esistere, riconosciuto e indipendente, si è con evidenza rovesciato nella protervia di negare invece ad altri, ai Palestinesi, lo stesso diritto universale rivendicato per sé. La mutazione è stata dall’orgoglio di rivendicare un diritto universale a quello di negare un diritto universale: dall’internazionalismo che si appoggiava sul consenso internazionale e sull’ONU, al nazionalismo che accusa di antisemitismo ogni critica dal mondo e sconfessa lo spirito dell’Onu. Questa è una premessa della catastrofe in corso, catastrofe per i palestinesi ma anche catastrofe per Israele, che da polo di convergenza dei quindici milioni di ebrei che vivono nel mondo diventa argomento di spaccatura. Dal compiacimento per Israele, alla vergogna per quello che sta facendo e diventando Israele col governo Ben -Gvir-Netanyahu Che invece di essere percepito, come in origine, un risorgere dalla catastrofe della Shoà e un’affermazione di valori civili, sta sprofondando in un’altra catastrofe in cui precipitano con i palestinesi la sua dignità, i suoi consensi e il suo prestigio. Il rifiuto tra i riservisti, ma anche di vertici del passato dell’esercito e dei servizi segreti è una manifestazione di questo conflitto più generale, di opposizione alle mutazioni di Israele. Il fatto più importante è che questo avviene nel contesto di una crescente mobilitazione popolare contro la guerra, che dà forza all’attività incessante di tante organizzazioni israeliane e ebraico-palestinesi. Da questo conflitto, che attraversa Israele e la diaspora, emergono i segnali incerti della possibilità di una svolta che occorre appoggiare. Temo che l’attentato palestinese dell’8 settembre a Gerusalemme, molto grave e prevedibile, possa risultare un vantaggio per Netanyahu. E forse la possibilità di un’ offensiva contro i cittadini palestinesi di Israele.
Haaretz definì tempo fa quello attuale “un governo in cui i ministri fanno a gara a chi è più fascista”. Si può essere israeliani e fascisti. Si può essere ebrei e fascisti?
Noi, per esempio, abbiamo a Milano un presidente della Comunità Ebraica, Meghnagi, affezionato a La Russa e Meloni. Ce l’ha con la sinistra perché critica Israele, fa propaganda per la destra di ascendenza fascista perché è pedissequa verso Israele, tanto più per la sua affinità ideologica con il governo Ben-Gvir – Netanyahu. Ebrei o non Ebrei, per esser disponibili ai sapori simil-fascisti, anche se stridono con gli avvertimenti della memoria e dell’esperienza ebraica, basta coltivare un proprio privilegio corporativo e mettersi con presunta sagacia opportunistica sotto la protezione di una corrente montante in Europa e negli Stati Uniti, indifferenti o cointeressati al fatto che comporti un tracollo di civiltà. Di fronte alla spaccatura di Israele che impone la domanda con quale Israele solidarizzare, molti Ebrei solidarizzano con Israele in quanto tale, qualunque cosa stia facendo o diventando. È una fede di tipo confessionale, di idolatria dello Stato-guida. Su questa strada anche tra gli Ebrei non è straordinario il fenomeno simil-fascista. Provo a darne una ricetta: Si prenda una dose cospicua di nazionalismo, la si lasci lievitare in modo che il suo esclusivismo autoreferenziale fermenti in razzismo che inibisca il riconoscimento dell’umano vigente nell’altro, si aggiunga una notevole porzione di vittimismo che esima dal considerare le proprie responsabilità e lasci invece intendere che le proprie pretese non siano che il diritto a un risarcimento per i torti subiti, si insuffli nella poltiglia un preparato religioso o ideologico in modo che i propri interessi psicologici e materiali prendano l’aspetto carismatico di rappresentazione di una volontà superiore, e che i fatti propri somiglino a una missione, si mescoli a fuoco vivo in modo che il pastone perda l’aspetto pluralistico del minestrone e prenda invece quello di una sostanza omogenea e pura e si serva il tutto ancora caldo, nella situazione di massa di una celebrazione sentimentale di qualche idolo paesano del sangue e del suolo. Tutto ciò non è lontano da noi. È la banalità del male: diventare come i nazisti può essere un amen, può bastare l’essere normali e gregari in situazioni anomale, perché l’ “inumano” è altrettanto umano dell’umano. La religione nutre le più profonde saggezze e le più devastanti idiozie. Dipende dall’interpretazione.
Vale a dire?
La Bibbia ebraica, a cui nulla dell’umano è estraneo, avverte subito di un fatto essenziale: che prima nasce l’umanità nel cui seno più tardi, si formano gli Ebrei, una piccola parte dell’umanità. Il fondamentalismo nazionalistico rovescia questa indicazione: è più importante l’essere Ebrei che l’appartenenza all’umanità. Questo non riguarda solo gli Ebrei ma il fondamentalismo in quanto tale, confessionale o ideologico-politico, il quale vede l’umanità come un pericolo, una minaccia alla propria purezza identitaria, non invece come un insieme con cui rapportarsi con tutte le difficoltà e l’impegno del caso. Se considero i Ben -Gvir e simili, o i coloni in Cisgiordania mi viene in mente la “Sindrome di Stoccolma”, la seduzione che talvolta i rapiti subiscono dai rapitori e dalla loro forza e determinazione. Vedo nelle loro parole e nelle loro azioni una (inconscia?) ammirazione per i nazisti che li induce a imitarli. Come se le uova di Hitler si stessero schiudendo a distanza di poche generazioni dalla Shoà.
C’è chi sostiene che la forma moderna dell’antisemitismo è l’antisionismo.
L’antisionismo non è antisemitismo perché il sionismo non è “gli Ebrei”, né gli Israeliani sono gli Ebrei, mentre l’antisemitismo ce l’ha con gli Ebrei. Ma non c’è dubbio che l’antisionismo è troppo spesso il travestimento in cui l’antisemitismo si presenta in forma che vorrebbe essere ammissibile o persino politicamente e quindi moralmente plausibile. Perché il Sionismo è una scelta politica che in quanto tale è confutabile mentre l’essere ebrei è una condizione esistenziale, è un diritto umano, e in quanto tale molto meno confutabile. L’equiparare il Sionismo agli Ebrei e quindi l’antisionismo all’antisemitismo è un abuso che serve a due interessi contrapposti: a chi ha vocazioni antisemite serve per coinvolgere l’inconfutabilità di essere Ebrei nella confutabilità della scelta politica sionista. A chi invece si oppone all’antisemitismo (come il documento IHRA che sancisce l’identità tra antisionismo e antisemitismo) serve a conferire al Sionismo politicamente confutabile la stessa inconfutabilità dell’essere Ebrei, per bloccare ogni critica all’esistenza “sionista” di Israele. Ma la legittimità ad esistere di Israele e degli Israeliani come nazione non deriva più da come è nato lo Stato né dal Sionismo, ma dal fatto che Israele è ormai una nazione esistente e il diritto di una nazione ad esistere deriva dalla sua stessa esistenza. La stessa cosa ai Palestinesi, in quanto nazione esistente, deve essere riconosciuta.